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Gerhard Roth (intervista a)  di Lorenzo Pieraccini

30/6/2014

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intervista a Gerhard Roth 
di Lorenzo Pieraccini

- La prima domanda che vorrei porle concerne il suo studio di neuroscienziato. Quanto contano oggi le conoscenze neuroscientifiche nello studio della mente?
Roth: ritengo che non si possa fare una teoria della mente senza tutti i dati della neurobiologia, in quanto le speculazioni possono andare in qualsiasi direzione, ma spesso le verità sono controintuitive.
Le caratteristiche dell'avere un'esperienza personale, del modo in cui pensiamo e di come percepiamo il mondo, non sono identiche a quelle dei processi cerebrali che hanno luogo nel cervello. Noi non percepiremo mai i meccanismi di sincronizzazione o l'attività diffusa, la topologia, della corteccia perché la nostra esperienza personale è illusoria in questo senso. È parte del senso comune pensare che ci sia un'istanza che pensa, che ragiona, che ha una certa percezione, ma poi studiando il cervello ci si rende conto che queste attività sono tutte in parallelo e distribuite. L'attività neuronale ha una forma molto diverso rispetto all'attività cosciente delle sensazione che noi sperimentiamo, tale esperienza è infatti un'illusione creata dal nostro cervello.

- L'esistenza della mente come la conosciamo attraverso l'introspezione è dunque fallace. Ma allora perché parliamo di mente e non solo di processi neuronali quando cerchiamo di spiegare l'attività cosciente umana?
Roth: da una parte si può dimostrare che quando abbiamo certi pensieri, certi sentimenti, c'è sempre un relativo substrato neuronale nel cervello. È possibile che un certo pensiero sia rappresentato da diversi processi neurobiologici, ma c'è necessariamente un rapporto tra stato mentale e stato cerebrale. Se si studiasse per lungo tempo un cervello di un individuo, alla fine, si potrebbe indovinare quello che pensa e quello che vede. Se lo si facesse bene si noterebbe che per ogni sensazione, ogni pensiero, ogni percezione e ogni emozione esiste un determinato substrato neurobiologico definito. Quindi si potrebbe identificare l'attività neurobiologica con l'attività mentale. Dall'altra parte però dal solo studio del cervello e della sua attività non si può capire, dall'aspetto neurobiologico e dal comportamento delle cellule, il significato, il “ meaning” di tale attività, che può essere determinato solamente dopo esperimenti psicologici, per esempio chiedendo ad una persona cosa pensava o cosa provava durante gli esami neurobiologici.
Dalla sola attività della corteccia, non si può determinare ciò che quella attività significa, tale significato non è per niente evidente. Se invece si domanda al paziente: hai visto qualcosa? Ed egli risponde per esempio: “sì, una freccia rossa”, a quel punto registrando l'attività della corteccia si può affermare che quei determinati processi sono l'equivalente di “vedere una freccia rossa”, ma dall'attività neurobiologica soltanto non si può dedurre niente. Soprattutto si deve considerare che quello che è il substrato della coscienza e della percezione, nella mente, non è determinato soltanto dall'attività che si può misurare, è molto di più. Si possono misurare poche cose dell'attività delle sinapsi.
In realtà c'è molto di più. Quindi non si può sostenere che un pensiero non sia nient'altro che il “firing” di una certa popolazione neuronale, perché ciò non è vero; è molto più complicato e dobbiamo ammettere solamente che quando i neuroni interagiscono in un certo modo emerge la coscienza o un pensiero ed il rapporto è sempre di uno ad uno: uno stato mentale implica uno stato neuronale, ma non si può ridurre l'esperienza all'attività neurobiologica.

- Per quanto riguarda la coscienza lei dice che il cervello produce la coscienza e fornisce le prove delle basi neurofisiologiche di questa produzione. Si può dire che questo spieghi la coscienza?
Roth: In un certo senso sì. Nei miei ultimi libri ho riformulato il concetto di coscienza fino ad arrivare a considerare almeno dieci tipi diversi di coscienza e si può mostrare come tutte queste coscienze abbiano un sostrato definibile nel cervello. D'altra parte però si può anche spiegare perché abbiamo bisogno della coscienza. Per esempio senza la coscienza non sarebbe possibile rendersi conto di ciò che si vede e si legge. In oltre anche la verbalizzazione è basata sulla coscienza. Possiamo avere percezioni non coscienti ma non possiamo darne conto in un atto verbale. Non possiamo effettuare alcun “report”. Ogni atto verbale prevede coscienza. Essa è dunque una forma di “information porcessinig”. Si può perciò spiegare la funzione della coscienza nell'ambito delle leggi naturali e dell'information processing. Non c'è un aspetto mistico in essa, anche se nessuno può esattamente spiegare come funziona. Forse in futuro ciò potrà avvenire...

- Che rapporto esiste invece tra processi consci ed inconsci? Cosa possiamo conoscere della nostra mente e cosa ci rimane inaccessibile?
Roth: questo è un problema di sviluppo individuale. I centri che producono l'Es (i processi inconsci)
si sviluppano molto prima dei centri che producono la coscienza, i quali si basano sull'attività della corteccia. Tutto quello che un neonato percepisce è o inconscio o comunque non può essere ricordato, non può essere memorizzato a livello cosciente. Forse il neonato può sviluppare prima dei tre anni processi consci, ma non può ricordare tali processi, perché la memoria non è ancora completamente sviluppata.
In oltre l'attività dell'amigdala e del sistema limbico è inconscia. Questi sistemi, del resto, si sviluppano molto prima e poi dominano il nostro comportamento decisamente più che i processi consci, che si sviluppano più tardi e non hanno poi grande influsso sul nostro comportamento rispetto a quegli inconsci; infatti il 90 per cento di ciò che facciamo è basato su processi inconsci.
C'è anche un altro punto importante: molte cose che un tempo erano coscienti (erano state apprese attraverso processi consci) ora non lo sono più sono pre-coscienti, intuitive.
Il 70 percento dei processi mentali sono “fuori dalla corteccia”, inconsci, prodotti dal sistema limbico. In oltre nella memoria a lungo termine si trovano tracce delle cose che una volta abbiamo imparato coscientemente ma che ora sono “sommerse”, sono diventate intuitive, automatizzate.
Tutto ciò è importante poiché questi processi guidano il nostro comportamento senza che ce ne
rendiamo conto. Pochissima parte del nostro comportamento viene regolato dalla ragione cosciente, poco, pochissimo, l'un per cento.
Questa è perciò la relazione che esiste tra pre-cosciente, incosciente, intuitivo e la coscienza acuta: tre anni fa ero a Siena e ho fatto tante cose, ho parlato con alcune persone e ho visto determinate cose, queste esperienze però non sono più presenti in dettaglio. Solamente quando sono di nuovo a Siena questa memoria inconscia(delle esperienze già vissute) si riattiva, mi guida, anche se non mi posso rendere conto (non posso accedere in prima persona) che cosa sia che mi guida. Ero con il professor Nannini in un ristorante e ho mangiato qualcosa che mi ha fatto stare male, sono quasi morto. Adesso solo questo ricordo è presente coscientemente, tutto il resto (delle esperienze) mi guida ma non è presente coscientemente, almeno non in modalità attenzionale (non posso rendermi conto che tali esperienze mi guidano).

- Ultimamente stanno emergendo sempre più conoscenze sui processi del cervello. Molte scoperte portano ad ammettere che l'io non esista e che sia un'illusione, lei cosa ne pensa?
Roth: Sì, io ho molto lavorato, negli ultimi tempi, con psicologi dello sviluppo dell'infanzia e insieme abbiamo verificato come si possa dimostrare l'esistenza di diverse fasi dello sviluppo dell'io del bambino. Ad esempio una forma di io estremamente primitiva è quella che permette al bambino di riconoscere i propri bisogni. Sviluppatasi questa capacità si evolve l'io dell'identificazione di sérispetto alla madre, poi l'io come agente, cioè la padronanza dei propri movimenti; l'io sociale e l'io linguistico si sviluppano più lentamente. Si può dimostrare che l'evoluzione di queste forme di io   parallela a quella del cervello.
L'io però è sempre un “label”, un attributo, non un meccanismo. Per esempio quando un bambino fa qualcosa e sente la madre dire frasi del tipo: “Tu sei stato bravo”. Prima deve imparare che quando la madre afferma: “io ti dico che tu...” si riferisce a se stessa, poi deve capire che il “tu” è lui stesso.
Questo avviene in un certo periodo dopo il quale il bambino capisce che il “tu” è lui e allora capisce (apprende il concetto) anche che tutto quello che è controllato dal suo corpo e dalla sua mente è il suo “Io”. In realtà però l'io non è una sostanza che controlla tutto, è un “label” un'istanza unificatrice.
Allora si può dire che da una parte l'io è un'illusione: l'illusione che l'io stia al di sopra di tutti gli
altri processi mentali e li controlli. Dall'altra parte però senza la costruzione dell'io gli uomini non
potrebbero agire. Per esempio pazienti che hanno perso l'istanza unificatrice dell'io non sono in
grado di agire nel mondo.
La mia posizione è che da una parte l'io è una costruzione del cervello che non esiste di per sé,
come sostanza, ma allo stesso tempo senza questo principio compositivo l'uomo non potrebbe agire.
Allo stesso modo nella società umana esistono delle costruzioni, come la dignità dell'uomo, che non hanno una realtà fisica, ma sono concetti molto importanti. Concetti illusori possono essere molto importanti, democrazia per esempio!

- Nel cervello si può riscontrare una regione che può essere considerata la sede dell'Io?
Roth: di io differenti! Esiste, per esempio, una regione della corteccia prefrontale chiamata pre- SMA (Supplementary Motor Area) che si attiva solamente quanto agiamo in conformità con la nostre motivazioni interne. Tale area si attiva solamente nel caso in cui sentiamo che la nostra azione è guidata da un bisogno spontaneo ed interno al corpo e non ci sono motivazioni imposte dall'ambiente esterno. Si deve notare che se in un paziente si stimola elettricamente questa regione egli inizia un'azione e afferma di averlo fatto per sua volontà. È evidente invece che è stata la stimolazione elettrica a determinare tale azione.
È molto complicato capire il circuito neuronale che determina i motivi che ci spingono, per esempio, ad alzare un braccio. O tali motivazioni vengono da fuori, come nel caso del comando: “alza il braccio”, o vengono da dall'interno del corpo. Solo quando mi rendo conto che tali motivazioni provengono dal mio corpo, da me stesso quindi, posso sviluppare il concetto di “io  agente”. Mi rendo conto cioè che sono il fautore dei miei atti.
Questo è solo un esempio di come l'io emerga dal cervello, ma ci sono molti altri tipi di io: della percezione, del linguaggio e della memoria, per citarne alcuni, e tutti questi tipi di io, quando ne diventiamo coscienti, posseggono diverse localizzazioni nella corteccia. Si può dimostrare subito, ad esempio, come a causa di una lesione del cervello il senso dell'io come agentività possa scomparire mentre senza che ciò disturbi la percezione e la capacità intellettiva; pazienti con tale lesione hanno l'illusione che qualche forza esterna li guidi.
Un altro esempio può essere fornito studiando la capacità di riconoscersi allo specchio. Può succedere che alcuni pazienti si alzino la mattina e vedano nello specchio, al posto di loro stessi, una persona che non conoscono. Questo accade perché i centri parietali che sono addetti al riconoscimento del viso solo lesionati o distrutti e non si può riconoscere nessuno, nemmeno se stessi. Dall'altra parte, pur non riconoscendosi nello specchio, il resto del loro io è sano e quando fanno qualcosa affermano tranquillamente“sono io che lo faccio”, ma non riescono a riconoscersi nello specchio. Allora si può intuire come i diversi io siano distribuiti nella corteccia quando sono coscienti, altrimenti se ci fosse un solo centro dell'io ci sarebbe un tutto o nulla; o l'io c'è o l'io non c'è. Invece come ho mostrato può darsi che alcune forme di io sussistano anche se altre sono sparite, questo perché la loro distribuzione nella corteccia è altamente differenziata.

- Un altro annoso problema con il quale oggi le neuroscienze si confrontano è quello del libero arbitrio. È un problema ancora più grande di quello dell'Io perché tutte le persone si sentono libere...
Roth: Non tutte! Ci sono pazienti che affermano: “io non sono libero, una forza dentro di me mi
dice quello che devo fare, io non sono libero”. Si potrebbe anche citare chi soffre di impulsi ossessivi: egli è costretto a fare qualcosa, come lavarsi le mani ogni cinque minuti, lo deve fare!
Ne è obbligato a causa di una malattia che attacca i gangli basali. Il suo cervello lo obbliga ad agire senza che egli possa compiere una scelta libera.
Quando abbiamo molta sete, in ogni caso, dobbiamo bere, non siamo liberi, può succedere che si beva anche se l'acqua è sporca e non ci sentiamo liberi, siamo spinti da un bisogno molto forte.
Perciò possiamo dire che sentirsi liberi significa: non c'è una forza esterna o interna che ci comanda, che ci domina e l'assenza di queste due forze significa “essere liberi”. Queste sono le precondizioni, questo basta. Gli psicologi che studiano le condizioni nelle quali le persone dicono “io mi sento libero...a partecipare a questo convegno o a bere o a non bere un caffè, ecc.” assumono semplicemente che essi siano liberi se nessuno li costringe e potrebbero agire altrimenti. Se ad esempio ho davanti del tè e del caffè, la libera scelta, io scelgo il tè invece del caffè e mi sento libero. Se tu mi domandi chi ha deciso per il tè invece che per il caffè, io affermo:io! Sentirsi liberi basta per la gente. In realtà studiando il cervello umano si potrebbe determinare esattamente quali siamo i processi cerebrali che hanno spinto a prendere il tè invece del caffè. Si possono spiegare i motivi totalmente. Allora io mi sento libero quando ho una scelta, ma questa scelta è determinata dai miei geni, dall'esperienza infantile, dalle esperienze fino ad oggi e tutti questi motivi mi determinano in continuazione.
Se si studiano a livello neurologico e psicologico le persone che bevono indifferentemente caffè o
tè, non si potrà dire preventivamente se prenderanno uno o l'altro. Infatti quando i motivi per effettuare una scelta si equivalgono, non ne esistono di prevalenti, può darsi che per scegliere si sia costretti addirittura a ricorrere al dado, al caso. Questo significa che a volte i meccanismi del cervello non trovano una motivazione forte per una soluzione o per l'altra. Non sempre quindi il nostro cervello determina esattamente le nostre scelte.
Hume affermava: “siamo liberi, ci sentiamo liberi, quando abbiamo una scelta”.
Quando decidiamo qualcosa, questo evento è sempre determinato dalla nostra personalità. Bisogna rendersi conto che la possibilità di decidere, la possibilità kantiana di decidere senza pulsioni, è assurda, non esiste. Quando Kant scriveva parlava principalmente della moralità. La moralità è agire contro i propri interessi, contro le proprie motivazioni interne. Per esempio se vedo qualcosa di molto attraente e nessuno mi guarda potrei volerlo rubare, ma non lo faccio per senso morale.
Anche aiutare un amico, o la propria moglie non è morale, perché dettato dal sentimento. La moralità è la coscienza della moralità. La moralità ha ragione in se stessa diceva Kant, ma questo è assurdo!
La gente ruba quando le probabilità di non essere presa sono minime; poche persone lo fanno anche rischiando. La ragione, quindi, entra in gioco solamente per calcolare le probabilità di successo, l'essere morale invece deriva dall'educazione ricevuta. La moralità è basata sull'esperienza individuale e sociale. Io, per esempio, sono stato educato da mio padre e dalla mia famiglia a non rubare anche se nessuno se ne accorge. Perché diventi un sentimento morale, però, un precetto deve essere ripetuto molte volte. È educazione. 

La libertà morale di Kant non esiste: la moralità è educazione.
Per esempio, se accade che ti facciano molto arrabbiare e tu non uccida chi ti ha offeso significa che hai imparato a controllare i tuoi impulsi, che quella è diventata la tua natura, oppure che il tuo cervello ti ha allertato che ti possano prendere e mettere in prigione. Se però perdi veramente il controllo e uccidi, in tribunale il giudice ti condanna: “tu avevi la possibilità di resistere alla tentazione, e non l'hai fatto, sei responsabile delle tue azioni” dirà. In realtà tu potresti sostenere che ciò non era sotto il tuo controllo. Non sei responsabile dei tuoi geni e della personalità che ti hanno portato a fare quel gesto. Questo è un grosso problema etico che non si può risolvere in quanto il nostro diritto penale è basato sull'idea della libera volontà, che non esiste. O tu resisti perché hai una certa educazione e certi geni o non resisti perché hai un'altra educazione.
Noi studiamo i giovani criminale e investighiamo i motivi per cui commettono dei reati e possiamo sostenere che il 20, 30 per cento del loro comportamento è influenzato dai geni e il resto dall'educazione, della famiglia in primis. Essi non sono mai liberi in quanto questo tipo di
determinazione avviene nei primi anni di vita, quando non siamo ancora coscienti a pieno. Poi ci
condiziona per tutta la vita.
Il settanta-ottanta per cento della nostra personalità si forma durante l'infanzia. Molti studi
dimostrano che nello sviluppo della personalità e del comportamento i geni hanno un'incidenza del 20/30 per cento; almeno 50 per cento viene dall'esperienza primaria, da neonato fino a tre anni, poi il restante 20 per cento è determinato dall'esperienza da adolescente e da adulto. Questo vale per tutti, per persone normali, ma anche per criminali e pazienti. Noi cresciamo con una personalità che si forma molto presto, di cui non abbiamo nessuna coscienza. Dobbiamo ammettere l'idea di essere controllati da forze che non riconosciamo. Ognuno ha la sua personalità, ma non abbiamo nessun idea da dove venga tale forma. Solo dopo uno studia approfondito di molti anni si può determinare se un tratto della personalità venga dai geni o dalla prima infanzia e così si può ricostruire l'intera personalità. Ed è quello che facciamo con i giovani criminali. Sono soprattutto tecniche psicologiche quelle che usiamo, anche studi del cervello, ma soprattutto tecniche psicologiche.
Facciamo interviste, facciamo indagini sulla famiglia. Assenza di padre, madre drogata, mancanza
di soldi, niente educazione, miseria. Da ciò si può capire come evolve la personalità di questi ragazzi, in modo quasi standard. Dire che avevano la libertà di non rubare non esiste.

- Concluso il tema del libero arbitrio, lasciandoci dietro molte domande aperte, come ogni dialogo deve fare, la vorrei interrogare su di un tema più metafisico, nel senso di riflessione sulla fisica, in questo caso sulla neurobiologia. Lei ci dice che il cervello “crea” la realtà, che ciò che percepiamo non è una semplice rappresentazione della realtà, ma una vera e propria costruzione “Bildung”. La realtà che il cervello crea è piena dei nostri ricordi, delle nostre emozioni; è un mondo fenomenico. Lei la chiama Wirklichkeit. Ce la può descrivere?
Roth: Questa è un'idea che è diventata molto comune nella neurobiologia di oggi, nessuno avrebbe qualche dubbio che è così.
Quando tu visiti un certo luogo per la prima volta tutto è nuovo, interessante. Quando ritorni nello stesso luogo una seconda o una terza volta tutto è interessante, ma non come la prima volta. Se vivi in un posto per dieci anni, poi, lo vedi completamente diverso dalla prima volta. Anche in amore è così. Tu ti innamori di una bellissima ragazza, poi se vivi con lei per dieci anni ti scordi di perché ti appariva così bella!
Quella dei sensi è sempre un'attività selettiva, ma noi vediamo il mondo sempre attraverso la nostra memoria. La memoria non riflette il mondo esterno. La stessa memoria a lungo termine riscrive sempre la nostra esperienza, ogni giorno. Essa non è una conoscenza statica, è un processo: se torni in un luogo dove sei già stato, questa percezione ti viene riformata in modo sempre diverso. Allora dobbiamo riconoscere che l'uomo vede il mondo più o meno identico, ma sempre in relazione ai dati forniti dalla memoria.
Il cervello vede quello che aspetta. All'inizio, appena nati, prima di nascere, in realtà, siamo come ciechi. Il cervello deve fare un'interpretazione di quello che vediamo una prima volta. Questo meccanismo di interpretazione che inizia con la nascita, prima della nascita e non termina che con la morte implica come suo costituente che ogni volta che si ha una nuova esperienza l'interpretazione viene attualizzata modificandone o rinforzandone certi aspetti. Ogni volta il cervello crea un nuovo mondo basato sulla nuova esperienza. È un processo totalmente interno. Se conosci una persona da dieci anni sai che non è identica a come l'hai conosciuta dieci anni prima perché nel frattempo hai vissuto un lungo periodo di tempo che ti ha riscritto tutte le esperienze che avevi memorizzato.
Il nostro grande cervello percepisce ciò che si aspetta. Noi vediamo ciò che aspettiamo basandoci sulla memoria. Spesso siamo consapevoli solo delle variazioni che un esperienza ci presenta rispetto alle caratteristiche registrate attraverso la memoria. Se questa differenza appare molto profonda il cervello riscrive e modifica il contenuto dell'esperienza, se altrimenti la differenza è minima il cervello vede ciò che si aspetta di vedere in base alle sue precedenti percezioni, e questo, a volte, è anche estremamente pericoloso. Una cosa molto comune deriva, ad esempio, dall'incontro con un amico che ha portato la barba per 10 anni e se la taglia. Quando lo vedi dopo il cambiamento o non percepisci alcuna modificazione o vedi qualcosa di vago che ti disturba, ma non riesci a capire cosa.
Non percepisci immediatamente che non ha più al barba perché il cervello ti fa percepire il mondo su per giù come se lo aspetta e ci vuole del tempo perché riscriva le nuove informazioni dando vita ad una nuova esperienza percettiva. Questo è molto pericoloso, come dicevo in precedenza, se stiamo guidando nel traffico su una strada che percorriamo costantemente da 10 anni. Può succedere di non accorgersi di eventuali nuovi cartelli che segnalano che quella strada è ora senso unico perché la nostra percezione è oscurata dall'abitudine, dalle nostre esperienze passate; è come essere ciechi!
Tutto questo avviene perché per il nostro cervello è molto pratico basare la percezione sulla memoria e riscrivere i dati in suo possesso solo in presenza di grandi differenze è un risparmio di energia!

- A questo punto devo chiederle quale sia l'illusione per cui si crede di essere in prima persona gli autore delle proprie scelte quando invece è un sistema complesso mente-cervello che ci rende ciò che siamo.
Roth: L'illusione è che ci sia un io che è padrone. Se uno accetta la propria personalità, il fatto che
si è sviluppata dai geni e dall'esperienza passata, allora si accetta il proprio essere. Allora può dire: “questo sono io”.
Io sono composto da un mosaico di tante cose. La possibilità di cambiare la propria personalità è
limitata in età adulta. Bisogna accettarsi. Siamo come siamo. Così sparisce anche l'ansia. Si deve semplicemente accettare quello che siamo. La personalità è controllata dall'inconscio, non solo freudiano. È controllata da tutto ciò di cui non ci rendiamo conto, come ad esempio le intuizioni, e dalle esperienze passate che non si ricordano coscientemente, ma alle quali si può accedere con la coscienza attraverso la memoria. Anche i pensieri sono guidati da componenti inconsci di cui non ci rendiamo conto. Ciò va accettato. Nonostante tutto esiste comunque la scelta! Solo che ogni scelta sta entro l'ambito della personalità. Per esempio, un amico ti propone di andare al cinema e tu accetti, poi ci pensi meglio e dici di no, ma non sai perché. Se finalmente viene fuori che non vuoi andare al cinema per la paura di essere circondato dalla gente, ad esempio, ne diventi consapevole, ma non sai comunque perché hai questa fobia. Nonostante la consapevolezza, rimangono celati i motivi profondi del perché le cose stanno in un certo modo e non in un altro. E questo accade spesso. Noi facciamo e diciamo delle cose di cui non sappiamo spiegare il perché. Se tu mi domandi perché vuoi restare a casa nonostante sia un film molto bello io invento qualcosa, ad esempio, che devo finire un compito, ma non è vero, in realtà, ho paura.
Spesso la gente dà spiegazioni molto complicate dei propri comportamenti perché nel profondo non sa perché agisce in quella determinata maniera e inventa, dando motivazioni superficiali. Mi accade spesso di verificare questo fatto quando parlo della mia professione con dirigenti dell'economia tedesca. Sovente tendono ad aver bisogno di esplicitare di essere in un determinato modo; hanno bisogno di riconoscersi ed affermarsi come ambiziosi e lavoratori. Potrebbe essere tutto falso, ma loro hanno bisogno di auto-rappresentarsi un quadro unitario della propria personalità. Solo se si accettano invece i fatti suddetti l'ansia di vivere sparisce; tu sei come sei.

- Il problema della personalità desta in me grande stupore. Ancora di più però c'è un punto della sua teoria che mi affascina e mi sconvolge. Esattamente quando lei dice che la differenza tra mente e cervello è una differenza all'interno del mondo fenomenico. (quindi una differenza apparente, non reale).  Ci può spiegare meglio?
Roth: io da neurobiologo mi metto a spiegare come il cervello produce la mente: faccio esperimenti sul cervello. Quello che vedo dall'esperimento però è un cervello che il mio cervello ha creato. Lo vedo davanti a me, ma tu invece puoi mostrare, attraverso un altro esperimento che è la mia corteccia visiva che ha creato il cervello che sto osservando. Quello che faccio, la mia mano quando la vedo, è una costruzione del mio cervello. Tutto quello che vedo è una costruzione del mio cervello. Attraverso la fMRI posso vedere il mio cervello, ma in realtà non è il mio cervello, ma un cervello costruito dal mio cervello. Anche io sono un costrutto del mio cervello! Ogni mia esperienza è una costruzione del mio cervello. Il cervello che mi crea non esiste nella mia esperienza.

- Io: è incredibile!
Roth: Nessun neurologo avrebbe dubbio che è così. Io vedo la mia mano e domando al neurologo dove si forma l'immagine che vedo ed egli mi risponde: nel cervello. Io sento qualcosa e mi domando dove sta accadendo? Nel cervello, ovviamente! Allora la conclusione logica è che esiste un mondo esterno reale dove esistono uomini, dove esisto anche io, (un uomo chiamato con il mio nome ed un cervello): questa è la realtà (speriamo)!
Il mondo dove esisto io (come percezione di sé) è stato invece costruito da quell'uomo con quel cervello ed il mio nome, ma io non lo potrò mai vedere! Tutto quello che vedo e sento è una costruzione del cervello. Dobbiamo ammettere che c'è un mondo reale dove esistono gli uomini e gli animali con dei cervelli che costruiscono mondi attuali (fenomenici), ma per noi questo mondo attuale è il solo mondo che esiste, l'unico che possiamo conoscere e non possiamo vedere oltre.
Anche se studio il mio cervello non posso trascendere la realtà fenomenica perché ciò che vedo è costruito dal mio cervello. Io non posso oltrepassare questo mondo. Anche logicamente non è
possibile. In questo momento, mentre parliamo, due costruzioni parlano in una mente che porta il mio nome e quando tu ti percepisci discutere c'è una creatura con il tuo nome nella cui mente avviene la conversazione ed abbina ai nostri costrutti la parola Io e la parola Tu.

- Come è possibile che due costruzioni che stanno in due menti (la nostre) che sono individuali, separate, entrino in contatto. Come è possibile che si svolga una discussione tra noi se siamo ognuno nella mente dell'altro?
Roth: Nel mio libro "Bildung braucht Persönlichkeit" ho trattato questo problema di nuovo. Ancora una volta mi sono chiesto come, se ognuno è imprigionato dentro se stesso, sia possibile capirsi.
Capire l'altro è un risultato di un lungo processo. Noi ci capiamo perché siamo esseri umani. Questo significa che possiamo capire l'espressione del viso, i gesti, gli aspetti emozionali degli altri, ci sono cose che capiamo spontaneamente. C'è comprensione anche senza parole. Inoltre possiamo parlare la stessa lingua, ad esempio l'italiano. Vale la pena sottolineare che ci saranno sempre delle differenze nell'uso della lingua, ad esempio tra me e te, perché io sono stato educato in Germania e tu in Italia. Anche dopo quarant'anni di confronto con gli italiani ci sono sempre cose che non capisco. Tra gli italiani stessi ci sono delle differenze: due italiani nati entrambi a Milano si capiscono meglio di uno nato a Milano e uno a Roma perché hanno ricevuto lo stesso tipo di educazione. È difficile capirsi anche se si proviene da classi sociali diverse. Più l'educazione è simile e più è facile capirsi. Questo serve a spiegare come la comprensione non sia un meccanismo diretto, dagli stimoli di un cervello ad un altro. È il tuo cervello che ricostruisce gli stimoli percepiti e, parallelamente, ogni cervello ricostruisce più o meno allo stesso modo gli stimoli in quanto i meccanismi che compiono tale processo sono gli stessi.
Anche se si vive in stretto contatto per anni non si può mai essere certi di capire quello che succede nella mente altrui. Ad esempio mia zia diceva di mio zio, dopo che era morto, che era un uomo buono, ma in realtà era una sua costruzione, perché quello che succedeva nella sua mente non lo ha mai capito. Quindi si potrebbe sostenere che capirsi è una costruzione che due cervelli fanno in parallelo l'uno dell'altro senza però potersi concludere con una reale comprensione e compenetrazione reciproca. Ognuno vede il mondo secondo la sua esperienza e se le esperienze sono molto simili, allora due persone vedono il mondo in maniera quasi uguale, mentre, se le esperienze sono diverse il mondo è visto in maniera molto diversa. Uno che viene dalla classe operaia è difficile si capisca con uno che viene dalla classe capitalista e se lo fa è perché hanno un background di conoscenze/esperienze comuni.

- In questo mondo contemporaneo si parla molto di oggettività, ma alla luce di quello detto fin qui, come si risponde alla domanda: che cos'è la Verità?
Roth: Questa è una domanda che mi faccio sempre mentre compio le mie ricerche. Quando la concezione del mondo è abbastanza stabile, si crede, ad esempio, nelle verità della chiesa, nella parola del Papa, nelle affermazioni del governo, allora si può sviluppare un concetto di Verità. Credere in Dio, nel paradiso, nelle istituzioni in generale, permettere di credere in certe verità.
Il mondo però è in continuo cambiamento e non esiste verità. Ogni giorno ognuno di noi fa esperienze sempre nuove e diverse che rendono continuamente rinnovabili le nostre conoscenze.
Anche nella mia scienza (la neurobiologia) è così. Dieci anni fa, ad esempio, alcuni esperimenti portavano a credere ad una certa verità, che poi in base a nuovi esperimenti si è dimostrato essere falsa; in realtà tempo dopo ancora, si è tornati sostenere la prima interpretazione e a ritenere che quella fosse la verità e non l'altra. Ad esempio, per quanto riguarda l'intelligenza, in Inghilterra Cyril Burt aveva fatto esperimenti sui gemelli monozigoti scoprendo che il 50% dell'intelligenza deriva da caratteri ereditari. Questo non piaceva alla comunità degli psicologi del tempo, i quali erano felici della mancanza di dati a sostegno di questa tesi, tanto che anche il suo discepolo Hans Eysenck dovette negare la verità proposta del suo maestro. Sorprendentemente anni dopo si scoprì che aveva ragione proprio Burt! 

Niente vieta comunque che in futuro si possa scoprire che in realtà si sbagliava veramente.
Ogni volta che apro una rivista scientifica, soprattutto, leggo che molte delle verità che possediamo e delle cose che pensiamo non sono più giustificate. Questa è un'esperienza molto comune tra gli scienziati nel mio campo; allora cosa sarebbe la verità? Attraverso quale processo potremmo trovare la verità? La stampa dice la “verità”, il papa dice la “verità”, ma se io pubblico un articolo scientifico non posso dire: questa è la verità. Posso solo portare degli esperimenti che non risultino stupidi e, se confrontati con gli studi sul cervello dell'esperienza neuroscientifica degli ultimi cento anni, risultino coerenti ed con risultati plausibili. La verità non esiste perché non c'è alcun modo per trovarla. Articoli possono smentire altri articoli; si può dimostrare che alcuni esperimenti sono stati eseguiti male e che quindi i risultati non sono attendibili, ma mai affermare che quella sia la Verità.
Ci sono delle verità logiche, ma quello che ci interessa sono le verità empiriche e queste possono
essere ricercate solo attraverso la plausibilità, la coerenza e la consistenza di dati.

- La verità è allora un processo in divenire che sempre si rinnova in base a nuovi dati?
Roth: no, non si può proprio parlare di verità. Un filosofo potrebbe, per assurdo, affermare di credere in Tommaso D'aquino e rifiutare le affermazioni della scienza dicendo che sono tutte sbagliate. Noi crediamo che la scienza incrementi incessantemente le nostre conoscenze ma non lo sappiamo con certezza. (Con tono ironico,ndr): Potrebbe essere un errore totale e potrebbe averavuto ragione Tommaso o Aristotele o Gesù.
Spesso i miei studenti mi chiedono: professor Roth, esiste una vita dopo la vita? Io rispondo: non lo so. Quello che posso dire è che non esiste nessuna evidenza dell'esistenza di una vita simile a quella di adesso dopo la morte. Se c'è una vita può essere solo totalmente diversa dall'esperienza cheviviamo in questa terra. Non possiamo saperlo. Ad esempio il dogma della verginità di Maria è un'affermazione empiricamente indimostrata; non si è mai verificato nessun caso di concepimento senza inseminazione. La chiesa nonostante questo continua a sostenere il dogma della verginità che si regge, comunque, su un errore di traduzione. Infatti nel testo originale si parla di “donna giovane” non di donna vergine. Nelle successive traduzione, dopo l'errore, è stata mantenuta questa traduzione. Ogni teologo sa di questo errore, anche il Papa, ma nonostante questo continuano a sostenere il dogma illogico della verginità. In ogni caso è una “verità”che non fa parte del mondo indagato dalle scienze naturali, cioè di questo mondo. Si potrebbe anche sviluppare un concetto di anima all'interno delle scienze naturali identificandola con la psiche, ma se si parla di anima immortale allora io mi domando quale sia l'evidenza empirica che permette di affermare tale “Verità”.

- Dopo la morte io so che fine fa il mio corpo, so come si evolvono i processi di decomposizione del corpo, ma non ho idea di cosa succeda alla mia psiche, ai miei pensieri ai miei ricordi, anzi questi, come entità fisiche non sono nemmeno mai esistite.
Roth: perché no? Certo che sono esistiti, sono stati prodotti dal cervello. Il pensiero è uno stato fisico. É un po' strano, ma le emozioni esistono fisicamente. Se tu studi sotto quali condizioni il cervello produce i pensieri puoi descrivere tali processi. Il pensiero, la mente sono entità fisiche.
Sembra strano ma non c'è dubbio di ciò. Lo testimonia il fatto che quando si pensa intensamente il nostro cervello consuma più energia, ossigeno e zucchero. I pensieri, la mente sono entità fisiche perché seguono le leggi della fisica e dell'evoluzione e se questa macchina, il cervello, sparisce allora anche la mente sparisce, nel senso di come noi la sentiamo. Da teologo si può credere che la mente sia qualcosa di diverso, ma da scienziato io posso domandare solamente quali sono le evidenze per sostenere tali affermazioni. Tutte le evidenze sono che quando muore il cervello muore anche la mente. Ciò si vede anche con il deperimento dell'organo cervello nella vecchiaia che corrisponde con un deperimento della mente, come nei casi di alzheimer e di demenza senile,  ad esempio.
Se esistesse un'anima che sopravvive alla morte dovrebbe essere un'anima che nel nostro mondo empirico non esiste. Io da agnostico posso dire: non lo so. Come filosofo del costruttivismo io non posso dire: Dio non esiste. È vietato. Se si volesse dare di Dio una concezione empirica allora potrei dire che Dio non esiste in quanto non ci sono prove di tale entità, ma se tu mi dessi una concezione non empirica di Dio io potrei dire semplicemente: non lo so. Parlare di Dio equivale a dire che esiste un pianeta che ha tanti aspetti interessanti ma che non è percepibile. Dipende quindi dal concetto che si ha di Dio, se si vuole abbracciare un punto di vista costruttivo.


- Per concludere vorrei ritornare sul concetto del “parlare” come elaborazione interna al cervello, qual'è il sostrato che ci permette di elaborare un'interpretazione delle intenzioni del parlante?
Roth: Noi abbiamo una base genetica per capire la lingua umana. Questa capacità si sviluppa nell'emisfero sinistro del cervello. Se io incontro un uomo che parla una lingua straniera, anche se non capisco ciò che dice, capisco che è un uomo e che sta parlando una lingua umana perché questa possibilità di comprensione è geneticamente determinata. Se passo del tempo con lui, piano piano, capirò alcuni significati che attribuisce a determinati vocaboli fino ad arrivare alla comprensione del suo circolo linguistico, in un movimento quasi a spirale.

- La Realitaet invece è la realtà fisica?
Roth: no, questo non si può dire perché se diciamo che la realtà fisica è la vera realtà non ci rendiamo conto che anche la fisica sia una costruzione del nostro cervello. La vera realtà possiamo solo sperare che esista, perché altrimenti diventa difficile spiegare molte cose, ma è sicuramente inconoscibile. Noi non possiamo descrivere la realtà perché dobbiamo usare il nostro linguaggio che deriva dalla nostra mente e quindi dalla nostra Wirklichkeit (realtà fenomenica).
Ad esempio se diciamo che i colori non esistono realmente, dobbiamo chiederci cosa esista allora?
Le frequenze della luce, potremmo rispondere, ma luce e frequenze che cosa sono? Sono concetti fisici. Sono costruzioni. Possiamo scrivere una formula per descrivere l'andamento delle frequenze della luce, ma una formula è una costruzione esclusiva della mente. Non c'è nessun modo per descrivere la realtà indipendentemente dalla nostra esperienza. Anche se riduco la fisica alle formule matematiche queste formule devono essere apprese da una mente, richiede uno studio di molti anni. È una costruzione che io mi faccio, anche se credo che il mondo segua queste leggi naturali. Bisogna rendersi conto che anche il concetto di legge naturale è un concetto costruito.
Questa costruzione però, stiamo attenti, non è “invenzione”, perché nelle scienze naturali abbiamo sviluppato un metodo che massimizza la plausibilità delle affermazioni. Se uno dicesse di aver visto Gesù io gli chiederei come ha fatto a accorgersi che era proprio Gesù e se mi rispondesse che lo sentiva non potrei che chiedergli di darmi una prova evidente di quello che sostiene, prova che in scienza è necessaria per giustificare ogni affermazione. La scienza però non ha niente a che fare con la verità, bensì con gradi di plausibilità.
Nessun fisico che conosco direbbe che la descrizione del mondo della fisica è identica alla realtà.
Nessun fisico può spiegare il perché della causalità, nessun fisico può spiegare il perché della gravitazione. Come si può dire che la fisica è la realtà se la base della fisica non è nota. Nessuno sa se questo mondo è esteso, nessuno sa se la luce viaggia; non si capisce come la luce immateriale abbia una velocità, seppur grande; ci sono i paradossi di Einstein per cui la velocità della luce non è additiva. Probabilmente non esiste la velocità, soltanto quando noi misuriamo ci sembra che esista.
Nessuno può spiegare se la luce è corpuscolare o è un onda. Certi esperimenti presuppongono sia un'onda, altri che siano corpuscoli. Questa non è verità. Questa non è la realtà.

- Esiste soltanto il mondo delle persone: konsensuelle Bereichs...
Sì, certo. Il mondo consensuale ci dice che talvolta sono corpuscoli talvolta onde. A volte ci dice le
luce viaggia, che ha una velocità. Dall'altra parte ci sono i paradossi di Einstein, la meccanica
quantistica è piena di paradossi. 

La realtà è piena di paradossi!
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l'Evoluzione della Tecnologia di Jared Diamond

3/10/2013

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L'evoluzione della tecnologia

tratto da : Jared Diamond 
​“Guns, Germs, and Steel. The Fates of Human Societies”;
(2006) Einaudi


Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni  

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Il 3 luglio 1908, gli archeologi che stavano scavando nell'antico palazzo minoico di Festo, a Creta, si imbatterono in uno degli oggetti più sorprendenti nella storia della tecnologia. A una prima occhiata non sembrava niente di speciale: un disco piatto e non dipinto di terracotta del diametro di una quindicina di centimetri. Ma a un esame più attento, si vide che su entrambi i lati erano impressi i segni di una scrittura, disposti lungo una linea a spirale che in cinque giri convergeva verso il centro. I segni erano 241, ed erano raggruppati in modo variabile da lineette verticali, che forse erano un modo di suddividere le parole.

Il disco sembrava progettato ed eseguito con cura, in modo che la scritta iniziasse sul bordo e finisse esattamente al centro, sfruttando tutto lo spazio disponibile (fig. 13 .1).

Dal giorno in cui fu dissotterrato, il disco di Festo non ha cessato di essere un mistero per gli storici. Il numero dei segni distinti individuati (45) fa propendere per l'ipotesi che si trattasse di un sillabario piuttosto che un alfabeto; il loro significato è però ancora oscuro, e la forma dei segni non assomiglia a quella di nessuna altra scrittura nota. Nessuna altra testimonianza di questo sillabario è mai stata scoperta nei novant' anni seguenti, e ancora non sappiamo se si tratti di una scrittura locale cretese o di una qualche importazione.
Per gli storici della tecnologia, il reperto pone problemi ancora più seri. Essendo stato datato attorno al 1700 a. C., rappresenta di gran lunga il primo esemplare di documento stampato al mondo; infatti i segni non sono incisi a mano, come in tutti gli altri esempi di lineare A e B ritrovati sull'isola, ma impressi nella creta morbida tramite degli stampi a rilievo.
Evidentemente, dovevano esistere almeno 45 di questi stampi, ognuno dei quali fu sicuramente costruito con grande cura, ed è ovvio che non furono usati solo per questo caso. La civiltà che se ne serviva produceva con tutta probabilità un bel po' di documenti scritti.
Il disco di Festo anticipa di millenni la stampa a caratteri mobili - anch'essa basata su un numero fisso di caratteri a rilievo, che venivano però impressi con l'inchiostro sulla carta. Bisognerà aspettare 2500 anni per i primi tentativi in Cina, e 3100 in Europa. Perché una tecnologia tanto in avanti sui tempi non fu usata diffusamente a Creta o in altre parti del Mediterraneo? Perché fu inventata nel 1700 a. C. proprio lì e non in qualche altro secolo in Mesopotamia, in Messico o in qualche altro antico centro di scrittura? Perché ci vollero migliaia di anni per arrivare all'idea di usare carta e inchiostro? Il nostro disco è una vera sfida storica: se le invenzioni sono imprevedibili come sembra dimostrare la sua esistenza, ogni sforzo di trovare linee generali nello sviluppo della tecnologia è destinato a fallire sul nascere.

La tecnologia, in forma di armi e mezzi di trasporto, è il mezzo più immediato grazie al quale alcuni popoli hanno soggiogato altri e allargato i loro domini; è il fattore più importante nelle grandi dinamiche storiche. Bisogna quindi spiegare perché furono gli eurasiatici, e non gli americani o gli africani, a inventare le armi da fuoco, le navi transoceaniche e l'acciaio. E uno squilibrio che si riscontra in molti altri campi: mentre in Eurasia nascevano la stampa, il vetro e le macchine a vapore, in Nuova Guinea e in Australia, ancora nel 1800 si adoperavano utensili litici abbandonati da millenni in altre parti del mondo, e ciò nonostante queste terre fossero ricchissime di ferro e rame. Questi fatti e altri ancora sembrano dare ragione all'uomo della strada, che pensa che gli europei siano più intelligenti e creativi degli altri popoli.

Se invece non esiste alcuna caratteristica neurobiologica umana che possa spiegare queste differenze di sviluppo, dobbiamo pensare a una teoria alternativa. Molti hanno in mente quella che potremmo chiamare «visione eroica dell'invenzione»: i progressi sono dovuti a un numero limitato di individui geniali, come Archimede, Johannes Gutenberg, James Watt, Thomas Edison e i fratelli Wright - tutti europei, o americani discendenti di immigrati europei. Questi grandi uomini avrebbero potuto nascere in Tasmania o in Namibia? E la storia della tecnologia dipende davvero solo dalla ventura che fa nascere in un certo luogo un certo individuo? Un'ipotesi alternativa non parla di creatività individuale, ma tira in ballo la diversa recettività dei popoli alle innovazioni. Alcune società sembrano essere irrimediabilmente conservatrici, ripiegate su se stesse e refrattarie al cambiamento. E questa l'impressione di molti occidentali quando tentano di aiutare i popoli del Terzo Mondo, che sembrano essere abitati da individui intelligenti e capaci, ma strutturati in società problematiche. Come si spiega altrimenti il fatto che gli aborigeni dell'Australia nordorientale non abbiano mai adottato arco e frecce, che vedevano usati dalle tribù dello Stretto di Torres con cui commerciavano?

Forse tutte quante le società di un continente sono impermeabili alle novità, il che spiegherebbe il ritardo tecnologico della zona. In questo capitolo arriveremo a trattare uno dei nodi centrali del libro: il motivo per cui il progresso ha avuto ritmi così diversi nei vari continenti.

Il punto di partenza della nostra discussione sarà un noto adagio: «La necessità è la madre dell'invenzione». In altre parole, le invenzioni nascono quando esiste un bisogno comune fortemente sentito, a cui la tecnologia esistente non dà risposta o risponde in modo parziale. Gli inventori potenziali, spinti dall' attrattiva del denaro o della gloria, capiscono il bisogno e cercano di soddisfarlo; alla fine qualcuno riesce a escogitare una soluzione migliorativa, che la società fa sua sempre che sia compatibile dal punto di vista culturale e tecnico.

Non poche sono le storie che confermano questo punto di vista pieno di buon senso comune. Nel 1942, nel pieno della guerra, il governo statunitense varò il Progetto Manhattan allo scopo esplicito di costruire una bomba atomica prima che lo facessero i tedeschi. Il progetto raggiunse i suoi obiettivi in tre anni, al costo di due miliardi di dollari di allora (circa venti di adesso). Altri esempi sono la sgranatrice inventata nel 1794 da Eli Whitney per rimpiazzare la faticosa sgranatura a mano del cotone, e la macchina a vapore di Watt del 1769, nata per risolvere il problema di pompare l'acqua al di fuori delle miniere.

Queste vicende molto note ci spingono a credere che gran parte delle invenzioni avvengano dietro sollecitazioni esplicite. Ma non è cosi: in realtà, molte idee sono state partorite grazie alla curiosità o alla voglia di giocherellare con le macchine, senza che ci fosse una richiesta specifica dall'esterno. Inventato un marchingegno, si trattava poi di trovare qualche applicazione: solo dopo averlo usato per parecchio tempo il pubblico si accorgeva di averne ormai bisogno. In più, alcuni apparecchi pensati per esigenze specifiche finirono poi per essere utilizzati in modi inaspettati. Può sorprendere sapere che tra queste invenzioni in cerca di utilità ci siano alcuni oggetti fondamentali per la storia moderna come l'aeroplano, l'automobile, il motore a scoppio, la lampadina, il fonografo e il transistor.
 Spesso l'invenzione è la madre della necessità, e non viceversa.

Una storia istruttiva in questo senso è quella di Edison e del fonografo, che fu l'idea più originale del più grande inventore dei nostri tempi.

Dopo aver costruito il prototipo nel 1877, egli scrisse un articolo in cui proponeva dieci possibili usi per il nuovo oggetto: fissare per sempre le ultime parole dei moribondi, registrare libri da far ascoltare ai ciechi, annunciare l'ora esatta, insegnare a scrivere sotto dettato e altri ancora.

La riproduzione della musica sembrava non interessarlo particolarmente.
Dopo qualche anno Edison disse al suo assistente che il fonografo non aveva alcun valore commerciale. Ma dopo un po' ci ripensò, e si mise a venderli ... come dittafoni per ufficio. Quando altri imprenditori lanciarono sul mercato il juke-box, che permetteva di ascoltare le canzonette al prezzo di una moneta, Edison criticò questo svilimento della sua invenzione.

Solo dopo una ventina d'anni ammise, riluttante, che il suo fonografo serviva soprattutto a registrare ed ascoltare musica.
L'automobile ci sembra oggi rispondere a un bisogno del tutto ovvio, ma non fu inventata per soddisfare una particolare esigenza. Quando Niklaus Otto costruì il suo primo motore nel 1866, non si sentiva la necessità di un nuovo mezzo di trasporto: i cavalli servivano alla bisogna da 6000 anni (e non si vedevano segni di crisi dell'offerta) e le ferrovie a vapore funzionavano bene da qualche decennio.

Il modello di Otto era poco potente, pesante e ingombrante, e non sembrava preferibile ai cavalli. Solo nel 1885 le migliorie tecniche permisero a Gottfried Daimler di installare un motore su una bicicletta e creare cosi la moto; per i camion si dovette aspettare il 1896.

Nel 1905 le automobili erano ancora costose e poco affidabili, poco più che un giocattolo per ricchi. Il successo dei cavalli e delle ferrovie fu totale fino alla prima guerra mondiale, quando l'esercito si accorse di aver davvero bisogno di camionette a motore. Dopo la guerra, un'intensa attività di lobbying rese il pubblico consapevole dei suoi bisogni, e i camion presero a soppiantare i carri nei paesi industrializzati. Anche nelle grandi città americane, per la sostituzione totale ci vollero però cinquant' anni.

Gli inventori devono spesso giocherellare a lungo con i loro modelli, in assenza di una spinta data da un bisogno riconosciuto, perché i prototipi il più delle volte funzionano troppo male per avere un qualche uso.

Le prime televisioni, macchine fotografiche e macchine per scrivere erano pessime, proprio come il motore gigante di Niklaus Otto.

E’ difficile capire se un cattivo modello possa diventare in seguito qualcosa di utile, e quindi se valga la pena di spendere altro tempo e denaro a perfezionarlo.
Ogni anno gli Stati Uniti rilasciano circa 70 000 brevetti, pochissimi dei quali raggiungono lo stadio dello sfruttamento commerciale: per ogni grande invenzione che trova alla fine un uso ce ne sono migliaia che si perdono per strada. E capita che una macchina progettata per soddisfare una certa esigenza si mostri più valida in altri campi: il motore di Watt doveva servire solo come pompa nelle miniere, ma presto fu utilizzato nei cotonifici e (con molto maggior profitto) sui treni e sulle navi.

La saggezza popolare e il senso comune, dunque, rovesciano il rapporto tra invenzione e bisogno e sopravvalutano il ruolo delle grandi figure come Edison o Watt. La «visione eroica» sembra supportata dall'istituzione del brevetto, perché chi vuole ottenerne uno deve dimostrare che il suo prodotto rappresenta una vera novità. Cosi gli inventori hanno tutto l'interesse a denigrare o ignorare il lavoro di chi li ha preceduti: dal punto di vista di un avvocato esperto in brevetti, l'invenzione ideale è quella che esce vergine dalla mente del creatore, come Atena dalla testa di Zeus.

In realtà, in tutte le più famose e importanti invenzioni moderne c'è sempre un precursore negletto che viene oscurato dalla frase «x ha inventato Y». Si afferma, ad esempio, che «James Watt ha inventato la macchina a vapore nel 1769», ispirato - si dice - dal vapore che usciva da una teiera. Una bella storia, ma in realtà Watt ebbe l'idea decisiva mentre stava riparando un modello del motore inventato da Thomas Newcomen 57 anni prima, di cui erano stati costruiti più di cento esemplari in Inghilterra. La macchina di Newcomen, a sua volta, era basata su quella brevettata da Thomas Savery nel 1698, a sua volta modellata   su quella che il francese Denis Papin aveva disegnato ma non costruito nel r680, a sua volta ispirata dalle idee di Christiaan Huygens e di altri scienziati. Con questo non voglio negare che i miglioramenti di Watt (tra cui la camera di condensazione separata e il cilindro a doppia corsa) rispetto a Newcomen fossero notevoli, cosi come quelli di quest'ultimo rispetto a Savery. Un percorso analogo si può ricostruire per tutte le invenzioni moderne adeguatamente documentate. L'eroe di turno che tutti accreditano dell'onore ha seguito le orme dei suoi precursori, che erano guidati da obiettivi simili e avevano realizzato progetti, prototipi o (come nel caso di Newcomen) modelli di buon successo commerciale. La famosa «invenzione» della lampadina da parte di Edison, la notte del 21 ottobre 1879, fu in realtà un miglioramento rispetto ai vari modelli precedenti brevettati tra il 1841 e il 1878.

L'aereo a motore dei fratelli Wright fu preceduto dagli alianti di Otto Lilienthal e dall' aereo senza equipaggio di Samuel Langley; il telegrafo di Samuel Morse da quelli di Joseph Henry, William Cooke e Charles Wheatstone; la sgranatrice di Eli Whitney usata per il cotone a fibra corta fu un adattamento di macchine usate da secoli per quello a fibra lunga. Non possiamo negare che le migliorie apportate da Watt, Edison, Whitney e dai Wright siano state importanti e decisive per il successo di questi prodotti; e che la forma finale dei medesimi avrebbe potuto essere diversa senza l'intervento degli inventori ufficiali. Ma qui dobbiamo chiederci se il corso della storia sarebbe cambiato in modo significativo se un certo genio non fosse nato in un certo luogo e in un certo tempo. La risposta è no: nessun individuo ha mai avuto un tale potere. Tutti i grandi inventori sono stati accompagnati da predecessori e successori abili, e sono vissuti in un'epoca in cui la società era in grado di usare le loro realizzazioni. Come vedremo, il dramma del superuomo che ideò gli stampi per il disco di Festo fu l'aver pensato a qualcosa che a quel tempo non poteva essere sfruttata su larga scala.

Ricapitoliamo: la tecnologia progredisce accumulando le esperienze di molti, non per atti isolati di singoli eroi; e i suoi usi vengono quasi sempre alla luce in un secondo tempo, perché quasi mai un oggetto si inventa pensando di soddisfare specifici bisogni.

Anche se ho fin qui fatto esempi tratti dalla storia moderna, perché si tratta di casi ben documentati, queste due conclusioni sono applicabili a maggior ragione alle più incerte vicende della tecnologia antica. Quando gli uomini dell'Era glaciale si accorsero che la combustione di sabbia e calcare lasciava nei loro focolari strani residui, non potevano prevedere la lunga serie di scoperte spesso fortuite che avrebbero portato alle prime finestre di vetro dei romani (attorno all'I d. C.), attraverso i primi oggetti vetrificati in superficie (attorno al 4000 a.C.), i primi manufatti interamente in vetro (Egitto e Mesopotamia, circa 2500 a. C.) e il primo vaso (circa 1500 a. C.).

Non sappiamo nulla su come tutto ciò fu inventato, ma possiamo dedurre molte cose osservando i popoli moderni dotati di tecnologie «primitive» come i guineani con cui lavoro. Ho già parlato del fatto che conoscono centinaia di specie vegetali e animali, e che sanno dove trovarle e come usarle. Similmente, sanno molte cose sulle rocce presenti nel loro ambiente: colore, durezza, resistenza ai colpi e alla scheggia tura, usi possibili. Tutta la loro sapienza è acquisita per tentativi ed errori. Il processo di «invenzione» si svolge sotto i miei occhi tutte le volte che porto i locali a lavorare con me fuori dal loro territorio; invariabilmente, raccolgono tutte le cose non familiari che trovano nella foresta, ci giocherellano un po' e se le trovano utili se le portano a casa.

La stessa cosa avviene quando abbandono un campo, e la gente del posto viene a frugare tra ciò che ho lasciato. Alcuni oggetti sono di utilizzo immediato, come le scatolette vuote che finiscono col diventare recipienti; altri hanno destinazioni molto diverse da quelle originarie, come le matite gialle numero 2 molto apprezzate come ornamento da naso o da orecchio, o i cocci di vetro usati come coltelli.

 Le materie prime a disposizione degli antichi erano pietra, legno, osso, pelli, fibre vegetali, argilla, sabbia, calcare e minerali vari, tutti presenti in molte forme. A partire da questi, l'uomo imparò pian piano a lavorare la pietra, il legno e l'osso per farne utensili; a impiegare crete particolari per fare vasi e mattoni; a trasformare una certa miscela di sabbia, calcare e altra «polvere» in vetro; a lavorare i metalli puri più malleabili come il rame e l'oro, poi a estrarli dai minerali in cui erano contenuti, e infine a trattare metalli resistenti come bronzo e ferro.

Un esempio interessante di tentativi ed errori è dato dalla storia della polvere da sparo e della benzina. 
I combustibili naturali si fanno notare spontaneamente, come quando un ciocco resinoso esplode in un falò. Nel 2000 a. C. in Mesopotamia si estraevano già tonnellate di petrolio per riscaldamento dell'asfalto naturale. 
I greci scoprirono che varie misture di petrolio, pece, resine, zolfo e calce viva potevano essere usate come armi incendiarie. Gli alchimisti islamici del Medioevo erano così esperti nella distillazione di alcol e profumi da indurli a provare anche col petrolio; scoprirono cosi che frazionando il medesimo si ottenevano composti incendiari ancora più potenti. Lanciate con granate e razzi vari, queste sostanze ebbero un ruolo importante nella vittoria finale nelle crociate. Nel frattempo i cinesi si erano accorti che un miscuglio di zolfo, carbone e salnitro - la polvere da sparo - era particolarmente esplosivo. Un trattato di chimica islamico del 1100 descrive sette diverse ricette per la polvere da sparo, e uno del 1280 ne fornisce ben settanta per vari usi bellici (razzi, cannoni e così via).
Nel XIX secolo i chimici videro che la frazione intermedia della distillazione del petrolio era utile come carburante per le lampade a olio. La frazione volatile - la benzina - veniva gettata come scoria; finché non ci si accorse che era eccellente per i motori a combustione interna. Chi avrebbe detto che la benzina, il carburante della nostra civiltà, era un tempo una delle tante invenzioni in cerca di un uso?

Dopo che un inventore ha scoperto un possibile utilizzo di una nuova tecnologia, il passo successivo è persuadere la società ad adottarla.
Aver trovato un congegno più potente e veloce per fare qualcosa non garantisce che questo verrà subito accolto; innumerevoli, anzi, sono i casi in cui così non fu. Tra i più celebri abbiamo il rifiuto del Congresso americano di finanziare le ricerche sul trasporto supersonico, la riluttanza degli inglesi ad adottare l'illuminazione elettrica delle strade, e l'ostinazione con cui il mondo rifiuta una tastiera progettata in modo razionale.

Cosa fa scattare la molla dell'accettazione?
Iniziamo a studiare l'accoglienza di diverse invenzioni all'interno della stessa società. I fattori che entrano in gioco sono almeno quattro.

Prima di tutto c'è il vantaggio economico della nuova tecnologia rispetto all'esistente. Le ruote sono molto utili nelle moderne società industriali, ma non è dappertutto così.  

Nell'antico Messico furono inventati dei veicoli dotati di ruote e di assali, che però erano solo dei giocattoli. E una cosa che può sembrarci incredibile, ma se pensiamo al fatto che quella società non aveva animali domestici da attaccare ai carri vediamo che la ruota non offriva alcun vantaggio rispetto ai portatori umani.
Un secondo fattore è dato dal prestigio, che può far cadere le ragioni di ordine economico. Milioni di persone oggi comprano jeans firmati al doppio del prezzo di un modello ugualmente resistente, perché i benefici di status legati all'etichetta contano più dei costi economici. Allo stesso modo i giapponesi continuano a preferire gli ingombranti caratteri kanji all' eccellente sillabario kana, perché il prestigio di chi legge e usa i primi è assai maggiore.

Un altro fattore è la compatibilità con gli interessi già acquisiti. Questo libro, e probabilmente ogni altro documento stampato che vi sia capitato sotto gli occhi, è stato battuto su una tastiera di tipo QWERTY (o QZERTY), cosi detta perché queste sono le prime sei lettere da sinistra della prima fila. Può sembrare incredibile, ma questa disposizione, dei tasti fu disegnata nel 1873 in modo da essere apposta irrazionale. E progettata in modo da rallentare il lavoro di chi la usa, perché ad esempio le lettere più comuni sono distanti fra loro e concentrate sul lato sinistro. Questo fu fatto perché i modelli del 1873 si bloccavano se due tasti adiacenti erano battuti in rapida successione, e cosi gli ingegneri dovettero escogitare trucchi perché questo non accadesse. Quando il progresso tecnico fece sparire il problema, si poté progettare una tastiera più efficiente; nel 1932 ne fu presentata una che raddoppiava la velocità e abbatteva del 95 per cento la fatica. Ma le QWERTY erano ormai saldamente trincerate dietro gli interessi di milioni e milioni di dattilografi, insegnanti, fabbricanti di macchine per scrivere e di computer, il che ha prevenuto ogni mossa verso una maggiore efficienza negli ultimi sessant'anni.
La storia della tastiera QWERTY può sembrare buffa, ma in casi analoghi le conseguenze economiche sono state molto maggiori. Perché oggi il Giappone domina il mercato dei prodotti elettronici al consumo, basati sulla tecnologia del transistor, cioè su qualcosa che è stato inventato e brevettato nella nazione - gli Stati Uniti - che più è danneggiata da questo fatto?

Perché la Sony acquistò il brevetto dalla Western Electric, in un momento in cui le industrie americane stavano sfornando modelli basati sui tubi a vuoto, e non volevano concorrenza interna? Perché le strade delle città britanniche erano ancora illuminate a gas negli anni venti, molto dopo che l'America e la Germania si erano convertite all' elettricità? Perché i governi locali avevano investito molto sul gas, e avevano ostacolato in tutti i modi le compagnie elettriche?

L'ultimo fattore importante per l'accettazione delle nuove tecnologie è la facilità con cui si possono vedere i loro vantaggi. Nel 1340, quando le armi da fuoco non erano ancora presenti in gran parte dell'Europa, i duchi inglesi di Derby e di Salisbury furono spettatori della battaglia di Tarifa, in cui gli Arabi usarono i cannoni contro gli spagnoli.

Impressionati da quanto avevano visto, importarono queste armi in patria, e l'esercito inglese ne fu così entusiasta da adottarle già sei anni dopo nella battaglia di Crécy contro i francesi.

I casi della ruota, dei jeans firmati e della tastiera QWERTY ci mostrano le varie ragioni per cui una stessa società risponde in modo diverso all'innovazione. Se passiamo a considerare società diverse, vediamo che la ricezione è ancora più differenziata.

Molti pensano che i popoli rurali del Terzo Mondo sono meno pronti ad accettare le novità di noi occidentali; e anche all'interno del gruppo delle nazioni industriali, si sa che alcune sono più recettive di altre.
Se queste differenze fossero riscontrabili su scala continentale potrebbero spiegare le diseguaglianze dello sviluppo presenti nel mondo. Ad esempio, se tutti gli aborigeni fossero per qualche motivo uniformemente diffidenti riguardo alle novità, questo potrebbe essere un motivo per cui hanno continuato ad usare attrezzi di pietra quando altrove si era già passati ai metalli. Come nascono le differenze di ricettività tra i popoli?

Gli storici hanno tirato fuori una lista di almeno 14 ragioni. La prima è una lunga durata media della vita, che in principio dà agli inventori la possibilità di accumulare conoscenze e di intraprendere programmi a lunga scadenza. L'aumento della speranza di vita dovuto alla medicina moderna può aver contribuito ad accelerare il ritmo delle invenzioni in questi ultimi secoli.
Cinque fattori risiedono nell'economia e nell'organizzazione delle società:
  1. La disponibilità di forza lavoro a buon mercato data dagli schiavi sembra scoraggiare l'innovazione, mentre una forza lavoro scarsa o costosa stimola la ricerca di soluzioni tecnologiche. Per esempio, un cambiamento politico che interrompesse il flusso di immigrati messicani in California, e quindi di braccianti a buon mercato, renderebbe interessante la ricerca di una varietà di pomodoro che si possa raccogliere a macchina. 
  2. L'esistenza di leggi a protezione dei brevetti e della proprietà intellettuale in Occidente favorisce l'innovazione, mentre la mancanza di tutela, come in Cina, la scoraggia. 
  3. Le società industriali forniscono molte opportunità per l'istruzione tecnico-scientifica, il che accadeva anche nell'lslam medioevale ma non, ad esempio, nel moderno Zaire. 
  4. Il capitalismo moderno è organizzato in modo tale da rendere redditizio l'investimento in ricerca e sviluppo. 
  5. Il forte individualismo di società come quella americana fa si che gli inventori godano dei benefici del loro lavoro, mentre i legami esistenti in società come quella guineana fanno si che chiunque inizi a guadagnare denaro si trovi subito a dover mantenere una vasta parentela.
Quattro spiegazioni hanno carattere più ideologico:
  1. La disponibilità ad assumersi rischi, indispensabile per l'innovazione, è più diffusa in alcune società che in altre. 
  2. Il metodo scientifico è una caratteristica esclusiva dell'Europa moderna, che ha contribuito non poco alla sua preminenza tecnologica. 
  3. La tolleranza delle idee diverse aiuta il cambiamento, mentre la rigida ortodossia e tradizione (come avviene in Cina) lo affossa. 
  4. Non tutte le religioni sono uguali quando si tratta di progresso: alcune versioni dell'ebraismo e del cristianesimo sembrano essere particolarmente compatibili, mentre islamismo, induismo e bramanesimo possono essere in alcuni casi particolarmente incompatibili.
Le dieci ipotesi viste fino a qui sono tutte plausibili, ma nessuna è in qualche modo legata alle diversità geografiche. Se è vero che le leggi sui brevetti, il capitalismo e certe forme di cristianesimo favoriscono l'innovazione, perché ce li siamo trovati in Europa dopo il Medioevo e non nell'odierna Cina o in India?

Almeno, questi dieci fattori vanno chiaramente in una direzione, mentre i rimanenti - guerra, governo centralizzato, clima, abbondanza di risorse -sembrano essere ambigui, perché a volte agiscono a favore a volte contro:
  1. La guerra è sempre stata uno dei principali motori dell'innovazione; gli enormi investimenti fatti sulle armi nucleari durante la seconda guerra mondiale fecero nascere interi nuovi settori tecnologici. Ma i conflitti possono anche portare a gravissimi arresti del progresso scientifico. 
  2. Un governo centrale forte favori la tecnologia in Giappone e Germania alla fine del XIX secolo, ma la affossò in Cina dopo il 1500. 
  3. Secondo molti europei del nord l'ingegnosità prospera nei climi rigidi, dove è necessaria per sopravvivere, e non in quelli più miti dove non c'è bisogno di vestiti e il cibo casca dagli alberi. Ma c'è chi pensa che un ambiente favorevole renda l'uomo libero dai bisogni più immediati e quindi lo spinga alla speculazione. 
  4. C'è discordia sul ruolo dell'abbondanza di risorse naturali nello stimolare o inibire il progresso.
Una risorsa cospicua può far venire in mente qualche modo in cui utilizzarla: ad esempio i mulini ad acqua prosperarono in Europa del nord, in un'area piovosa e ricca di fiumi - ma perché non nell'ancora più umida Nuova Guinea? Si dice che la deforestazione della Britannia sia dietro al rapido progresso della tecnologia del carbone - ma perché questa non ha avuto lo stesso effetto in Cina?
La lista dei fattori prossimi potrebbe essere ancora più lunga; ma tutte queste ipotesi sembrano aggirare la questione delle cause remote. Sembra un brutto colpo al nostro tentativo di trovare un filo conduttore alla storia dell'umanità. Ma come mostrerò adesso, la diversità degli attori all'opera nel campo dell'innovazione tecnologica rende il nostro compito più facile, non più difficile.
Per gli scopi di questo libro, dobbiamo chiederci se i fattori della nostra lista si presentarono con differenze sistematiche da continente a continente. Per molti, siano essi uomini della strada o storici di professione, la risposta è implicitamente positiva. Si ritiene comunemente, ad esempio, che la cultura degli aborigeni avesse caratteristiche ideologiche tali da renderli arretrati: erano (o sono) conservatori, vivevano in un tempo magico correlato alla creazione del mondo e non si concentravano sul presente e sui modi per migliorarlo. Anche uno dei principali storici dell'Africa, invece, ha scritto che gli africani sono ripiegati su se stessi e non hanno lo slancio espansivo degli europei.
Ma tutte queste sono pure speculazioni. Non c'è mai stato uno studio comparato di più società in condizioni socioeconomiche simili, poste però su due continenti diversi, che dimostrasse l'insorgere di sistematiche differenze ideologiche. E un ragionamento circolare: si inferisce l'esistenza di diversità culturali partendo da quelle tecnologiche.
Nella realtà, mi capita sovente di constatare che i popoli nativi della Nuova Guinea sono molto diversi tra loro anche sotto questo aspetto.
Proprio come nell'Occidente industrializzato, esistono società conservatrici che vivono gomito a gomito con società innovatrici che selezionano e accolgono le novità più utili per loro. Il risultato è che i popoli più intraprendenti stanno sfruttando la tecnologia portata dagli occidentali per avvantaggiarsi a spese dei loro immobili vicini.

Tra le varie tribù ferme all'Età della pietra «scoperte» negli altopiani orientali negli anni trenta, i Chimbu si mostrarono subito particolarmente avidi di assimilare la civiltà dei bianchi. Quando videro che i coloni iniziavano a piantare il caffè lo fecero anche loro, con il solo scopo di venderlo e guadagnare. Nel 1964 incontrai un Chimbu sulla cinquantina, analfabeta, vestito del tradizionale gonnellino vegetale, nato in una tribù che ancora usava attrezzi di pietra; era diventato ricco grazie al caffè, e aveva usato i soldi per comprarsi una segheria per 100.000 dollari, e una flotta di camion. Per contrasto, in una zona poco distante vive una tribù con cui ho lavorato per otto anni, i Daribi, che sono assai conservatori e non si interessano delle novità dei bianchi. Quando il primo elicottero atterrò sulle loro terre, lo osservarono per un po' e se ne tornarono subito alle loro occupazioni; i Chimbu si sarebbero messi a mercanteggiare per noleggiarlo. Il risultato è che ora i Chimbu si stanno espandendo ai danni dei Daribi, e questi ultimi sono ridotti a lavorare per i primi.

La stessa cosa è accaduta in ogni continente: certi popoli si sono mostrati ricettivi nei confronti di alcune delle novità importate, e sono riusciti ad integrarle con successo nelle loro società. In Nigeria il ruolo dei Chimbu fu preso dagli Ibo, e in Nord America dai Navajo, che oggi sono il più numeroso gruppo indiano negli Stati Uniti. Questi ultimi si sono dimostrati particolarmente duttili e capaci di scegliere le innovazioni utili: utilizzano le tinture occidentali per le loro stoffe, hanno imparato a lavorare l'argento e a fare i pastori, e ora guidano i camion pur continuando a vivere nei loro insediamenti tradizionali.

Anche gli aborigeni australiani non si sono dimostrati tutti conservatori.
Ad un estremo, i Tasmaniani hanno continuato ad usare un tipo di utensili litici che era già considerato sorpassato in Europa decine di migliaia di anni fa; dal lato opposto, alcuni gruppi di pescatori del Sudest dell'Australia hanno sviluppato complesse tecniche di piscicoltura, tra cui la costruzione di canali, chiuse e trappole fisse.
La ricezione e l'evoluzione delle invenzioni variano moltissimo da una società all' altra all'interno dello stesso continente, e variano anche nel tempo all'interno di una stessa società. Al giorno d'oggi le nazioni islamiche del Vicino Oriente sono abbastanza conservatrici e non certo in prima linea nel campo dell'innovazione tecnologica. Ma nel Medioevo le società di quelle zone erano l'esatto contrario: avevano tassi di alfabetizzazione assai più alti di quelli europei, ed erano il tramite tra la civiltà greca e la nostra (come è noto molti testi classici si sono salvati solo grazie alle copie arabe); inventarono o perfezionarono cose come il mulino a vento, la trigonometria e la vela triangolare, oltre a compiere grandi progressi nel campo della metallurgia, delle tecniche di irrigazione e dell'ingegneria chimica e meccanica; importarono la carta e la polvere da sparo dalla Cina e le trasmisero all'Europa. Nel Medioevo il trasferimento di conoscenze era in gran parte diretto dall'Islam all'Occidente e non viceversa.

Solo dopo il 1500 circa questo flusso cominciò ad invertirsi. Anche in Cina si registrarono oscillazioni simili. Fino al 1450 circa, la società cinese era assai più innovativa ed avanzata di quella occidentale, e anche più di quella araba. Nella lunga lista di invenzioni cinesi troviamo le chiuse dei canali, la ghisa, la trivellazione, i finimenti, la polvere da sparo, l'aquilone, la bussola magnetica, la carta, la porcellana, la stampa (se si eccettua il disco di Festo), il timone e la carriola. La Cina cessò di essere un centro di innovazione per le ragioni che vedremo nell'Epilogo. Comunque, l'Europa rimase la meno «avanzata» delle grandi civiltà eurasiatiche almeno fino al tardo Medioevo.

Concludendo, è falso che esistano continenti popolati da gruppi umani innovativi e altri abitati solo da conservatori. In ogni parte del mondo, in ogni epoca, si possono avere società aperte o chiuse al nuovo, e anche all'interno delle singole civiltà la situazione può mutare nel corso del tempo.


Pensandoci bene, queste conclusioni sono proprio quelle che ci aspetteremmo di trovare se il tasso di inventiva di un popolo fosse determinato da molti fattori indipendenti, senza la conoscenza precisa dei quali non si potrebbero fare previsioni. Ecco perché si continua a discutere su quel che successe nell'Islam, in Cina e in Europa, e sul perché i Chimbu, gli Ibo e i Navajo fossero più pronti a ricevere le novità dei loro vicini. A chi voglia studiare i grandi percorsi della storia, però, importa poco sapere quali fossero i fattori all'opera nei singoli casi: questa gran varietà, paradossalmente, rende il nostro compito più facile, perché rende la variabile «recettività all'innovazione» praticamente aleatoria.

Questo significa che in un'area sufficientemente vasta (come un continente) in ogni momento esiste con molta probabilità una società innovativa.
Ma da dove arriva davvero l'innovazione? Se si eccettuano i casi delle società del passato completamente isolate, gran parte della nuova tecnologia non viene sviluppata localmente, ma importata dai vicini. La proporzione tra invenzioni autoctone e importate dipende da due fattori: la semplicità della tecnologia in questione e la vicinanza tra i popoli.

Alcune invenzioni, in molte occasioni indipendenti nella storia del mondo, sorsero semplicemente dalla manipolazione di certe materie prime. Un esempio che abbiamo già trattato in dettaglio è la domesticazione delle piante, che ebbe almeno nove origini distinte. Un altro è la comparsa del vasellame, che può esser stata causata dall'osservazione del comportamento dell'argilla - un materiale molto diffuso - quando veniva cotta o essiccata. La prima ceramica apparve 14.000 anni fa in Giappone, circa 10.000 anni fa nella Mezzaluna Fertile e in Cina, e successivamente in Amazzonia, nel Sahel, negli Stati Uniti sudorientali e in Messico.
Un esempio di invenzione «difficile» è invece dato dalla scrittura, che non può essere ispirata dall' osservazione di qualche fenomeno naturale.
Come abbiamo visto nel capitolo XII sorse poche volte nella storia dell'umanità - un tipo di scrittura, 1'alfabeto, probabilmente una volta sola. Altri casi di questo tipo sono dati dalla ruota idraulica, dalla macina, dagli ingranaggi, dalla bussola, dal mulino a vento e dalla camera oscura, tutti oggetti inventati solo una o due volte nel Vecchio Mondo e mai nel Nuovo.

Tecnologie così complesse si acquisiscono in genere prendendole dai vicini, perché si diffondono in meno tempo di quanto richieda la loro reinvenzione indipendente. Un esempio lampante è dato dalla ruota, attestata per la prima volta attorno al 3400 a. C. nella zona del Mar Nero, e diffusa nei secoli successivi in gran parte dell'Eurasia. Tutte queste prime ruote hanno una struttura particolare: un robusto cerchio di legno formato da tre assi legati insieme, e non il classico cerchione con i raggi. Invece, l'unica ruota del Nuovo Mondo (così com'è dipinta su alcune ceramiche messicane) era formata da un unico pezzo, il che fa propendere per una invenzione indipendente - come è logico attendersi vista la distanza e l'isolamento.

Nessuno pensa che la comparsa di quel particolare modello di ruota eurasiatica in molti siti nel giro di pochi secoli sia un caso; senz' altro si trattò della rapida diffusione verso est e verso ovest del prototipo originario, la cui utilità fu subito chiara a tutti. Una dinamica simile – invenzione unica nell' Asia occidentale e rapida diffusione - si ripeté nel Vecchio Mondo per altri oggetti, tra cui la serratura, la carrucola, la macina, il mulino a vento, e l'alfabeto. Un esempio nel Nuovo Mondo è la metallurgia, che dalle Ande arrivò via Panama in Mesoamerica.

Quando un'invenzione assai utile appare in qualche società, si diffonde in genere in due modi. Nel primo, i vicini vedono direttamente o indirettamente l'oggetto, sono favorevoli ad adottarlo e lo fanno proprio.
Nel secondo, un popolo si trova in svantaggio rispetto a qualche vicino che ha una cosa in più, e alla fine soccombe lasciando spazio all'espansione dell'altro (e della sua invenzione).
Accadde esattamente questo con il moschetto tra i maori della Nuova Zelanda. Una tribù, gli Ngapuhi, acquisì i fucili commerciando con gli europei attorno al 1818. Nei quindici anni seguenti, la Nuova Zelanda fu sconvolta dalle «guerre del moschetto»: le tribù che ancora non ce l'avevano o se lo procuravano in qualche modo o erano sconfitte dalle altre. Il risultato fu che nel 1833 tutte le tribù maori superstiti possedevano quel tipo di fucile.

L'adozione di una nuova tecnologia può avvenire in contesti molto diversi: regolare commercio (come l'arrivo del transistor in Giappone dagli Stati Uniti nel 1954), spionaggio (come i bachi da seta, esportati clandestinamente dall'Oriente nel 552), emigrazione (la diffusione dei tessuti e dei vetri francesi in Europa dopo l'espulsione di 200.000 Ugonotti nel 1685), e guerra. Un esempio di quest'ultimo tipo fu il trasferimento della tecnica cinese di fabbricazione della carta verso l'Islam, avvenuto quando gli arabi sconfissero i cinesi nella battaglia del fiume Talsa nel 751: essi trovarono alcuni cartai tra i prigionieri, se li portarono a Samarcanda e iniziarono a fabbricare la carta.

Abbiamo visto che la scrittura si può diffondere per copia del progetto o per adozione dell'idea in generale. La cosa è vera anche per la tecnologia. Poche righe sopra abbiamo visto casi di copie brutali, mentre 1'arrivo della porcellana cinese in Europa fu un esempio di diffusione di un'idea. La porcellana fu inventata in Cina nel VII secolo d. C. Quando, grazie alla Via della Seta, i primi esemplari giunsero in Europa nel XIV secolo (senza alcuna indicazione sul modo in cui erano fabbricati), vennero subito ammirati, e subito ci fu chi provò - senza successo - ad imitarli. Solo nel 1707 1'alchimista tedesco Johann Böttger, dopo lunghi esperimenti con varie misture di minerali e argille, azzeccò la ricetta giusta e fondò quindi le celebri manifatture di Meissen.

In modo più o meno indipendente, si arrivò allo stesso risultato più tardi in Francia e in Inghilterra, e le fabbriche di Sèvres, Wedgwood e Spode divennero famose.
Gli europei, quindi, dovettero riscoprire da soli i metodi cinesi di lavorazione, ma furono stimolati a farlo solo dopo aver visto un modello del risultato finale.A seconda della loro collocazione geografica, i popoli del mondo possono ricevere le invenzioni dei vicini con maggiore o minore facilità. Gli uomini più isolati della nostra storia recente sono stati i tasmaniani, che vivevano - senza avere barche - su un'isola a 150 chilometri dall'Australia, il continente più distante. Per 10.000 anni non ebbero contatti con nessun' altra società, e l'unica tecnologia che avevano a disposizione se l'erano inventata da soli. Gli aborigeni australiani e i guineani, separati dall' Asia continentale dalla miriade di isole dell'Indonesia, ricevettero ben poche cose dalla terraferma. Le società più interconnesse, invece, erano quelle stanziate sulle masse continentali, dove la tecnologia poté svilupparsi con rapidità grazie all' assommarsi delle invenzioni autonome e di quelle importate da fuori. La società islamica del Medioevo, strategicamente collocata al centro dell'Eurasia, poté ad esempio sfruttare alcune invenzioni cinesi e indiane, e farsi erede della tradizione occidentale greca.
L'importanza dei contatti e della posizione geografica è illustrata con forza da quei casi apparentemente incomprensibili di popoli che abbandonarono qualche ottima tecnologia a un certo punto della loro storia. Potremmo pensare che un'invenzione, una volta acquisita, rimanga in uso fino a che non è soppiantata da una migliore; in realtà, le novità bisogna anche saperle mantenere, il che dipende da un buon numero di fattori imprevedibili. Ogni società attraversa periodi di cambiamenti o di mode passeggere, in cui oggetti prima considerati inutili diventano preziosi e viceversa. Oggi, in un periodo in cui quasi tutti i popoli della Terra sono in contatto tra loro, non riusciamo a capire come una semplice moda riesca a far sparire qualcosa di utile: la società che se ne sbarazzasse temporaneamente la vedrebbe sempre usare dai popoli confinanti, e sarebbe quindi in grado di riprendersela un volta passata la follia del momento (o verrebbe conquistata dai vicini se non ci riuscisse).

Ma nelle aree isolate le mode possono durare a lungo.
Un esempio assai noto è l'abbandono delle armi da fuoco da parte dei giapponesi. Nel 1543 due avventurieri portoghesi armati di archibugi sbarcarono in Giappone a bordo di una nave da carico cinese. I locali furono così impressionati dalla cosa che iniziarono subito a produrre i fucili, migliorando la tecnologia a tal punto che già nel 1600 erano il popolo dotato di più armi da fuoco, e di migliore qualità, al mondo.

Ma c'era chi remava contro. I samurai ritenevano la loro spada un segno di prestigio e un'opera d'arte (e uno strumento per soggiogare le classi inferiori). I combattimenti, in Giappone, erano in realtà singolari tenzoni tra samurai, che si incontravano in campo aperto secondo un rituale ben preciso e duellavano con grazia ed eleganza. Sarebbe stato un comportamento suicida in presenza di una banda di contadini assai sgraziati, ma ben forniti di archibugi. Inoltre le armi da fuoco erano una cosa straniera, e tutto ciò che veniva dall'estero iniziò ad essere osteggiato dopo il 1600.  Il governo, controllato dai samurai, iniziò con il restringere la produzione di fucili in poche città, poi introdusse l'uso di licenze e permessi; questi a un certo punto vennero rilasciati solo per costruire armi destinate al governo, che ebbe vita facile a ordinare sempre meno pezzi, fino a quando il Giappone si trovò virtualmente privo di fucili funzionanti.

Anche tra i regnanti europei c'era chi non aveva in simpatia gli archibugi, e tentò di limitarne la diffusione. Ma misure del genere non si spinsero mai molto in là in Europa, perché un paese che avesse smesso di usare i fucili sarebbe stato sconfitto in un attimo da qualche vicino ben armato. In Giappone il processo andò fino in fondo perché quella era una società popolosa e isolata, che poteva cavarsela anche senza una nuova e potente tecnologia militare. Nel 1853 la flotta del comandante Perry, ben armata di cannoni, fece capire al Giappone che era tempo di ritornare a costruire armi da fuoco.

Questa vicenda e l'analogo abbandono della navigazione oceanica da parte della Cina (cosi come degli orologi meccanici e dei filatoi ad acqua) sono casi ben noti di regressione tecnologica all'interno di società quasi o del tutto isolate. Altre inversioni di rotta avvennero in tempi preistorici. Il caso estremo è quello dei tasmaniani, che smisero di usare gli oggetti d'osso e di pescare, finendo per diventare il popolo più «arretrato» del mondo (come vedremo nel capitolo xv). 
E’ probabile che gli aborigeni abbiano utilizzato e poi abbandonato archi e frecce. I popoli dello Stretto di Torres lasciarono le canoe, e gli isolani di Gaua le lasciarono per poi riprendersele. La ceramica fu abbandonata in varie parti della Polinesia. Polinesiani e melanesiani dimenticarono anche in massa l'uso di archi e frecce in battaglia. Varie tribù eschimesi abbandonarono arco e frecce, il kayak e l'uso dei cani.

Questi esempi, che in un primo tempo ci erano parsi così strani, mostrano assai bene l'importanza della geografia e dei contatti tra popoli nella storia della tecnologia. Senza interscambi si acquisiscono meno invenzioni, e se ne perdono di più.

Poiché la tecnologia genera altra tecnologia, la buona diffusione di una invenzione è forse più importante dell'invenzione stessa. La storia delle innovazioni si può definire un processo autocatalitico, che accelera col tempo perché si alimenta e si favorisce da solo. L'esplosione scientifica e tecnica seguita alla rivoluzione industriale fu davvero notevole, ma anche quella del tardo Medioevo fu impressionante se paragonata a quella dell'Età del bronzo, che a sua volta oscurò quella del Paleolitico superiore.
Un motivo per cui la tecnologia è spesso autocatalitica è che i grandi progressi dipendono dalla soluzione preventiva di problemi più semplici. Gli uomini del Paleolitico non inventarono di punto in bianco il modo per estrarre il ferro dai minerali: fu il coronamento di millenni di esperimenti e di avanzamenti nel trattare i metalli come il rame e l'oro che si trovano quasi puri in natura e che possono essere lavorati a freddo; importanti furono anche i miglioramenti nella tecnologia delle fornaci, usate prima per la ceramica e per l'estrazione e la lavorazione dei minerali di rame e delle leghe come il bronzo, che richiedono temperature più basse. Sia nella Mezzaluna Fertile che in Cina, i manufatti in ferro si diffusero solo dopo 2000 anni di esperienze con il bronzo. Nel Nuovo Mondo si era appena iniziato a lavorare quest'ultimo, quando l'arrivo degli europei troncò una possibile linea di sviluppo indipendente. Inoltre, la tecnologia si alimenta da sola perché è in grado di dare origine a nuove soluzioni per combinazione di componenti. Ad esempio, perché la stampa si diffuse come un lampo nel mondo dopo l'arrivo di Gutenberg e della sua Bibbia nel 1455, e non dopo il disco di Festo
del 1700 a. c? 

In gran parte perché gli stampatori medievali seppero combinare insieme ben sei invenzioni, molte delle quali non erano a disposizione degli artigiani cretesi: la carta, i caratteri mobili, la metallurgia di precisione, i torchi, l'inchiostro e l'alfabeto. Le prime due erano giunte in Europa dalla Cina. L'idea di Gutenberg di usare stampi metallici per fondere il carattere, per risolvere il serio problema dell'uniformità dimensionale, si basava su molti progressi nell' arte dei metalli: l'uso dell'acciaio per i punzoni, di leghe in ottone o bronzo (e dopo dell'acciaio) per gli stampi, e di una lega di stagno, zinco e piombo per i caratteri. Il suo torchio era derivato da strumenti analoghi usati per la spremitura di vino e olio, e il suo inchiostro era una versione elaborata di quelli già esistenti. Gli alfabeti che l'Europa aveva ereditato da millenni di storia erano ideali per i caratteri mobili, perché ne servivano poche decine, e non migliaia come per il cinese.

Gli artigiani di Festo, sotto tutti questi aspetti, avevano a disposizione tecniche assai meno valide. Il disco è di creta, un materiale molto più ingombrante della carta. La metallurgia, gli inchiostri e i torchi erano assai più primitivi nel 1700 a. C. che nel 1455 d.C., e cosi il segno doveva essere impresso a mano, e non tramite un carattere mobile fissato a comporre una pagina di metallo, inchiostrato e premuto sulla carta. A Festo si usava una scrittura sillabica, molto più complicata dell'alfabeto latino di Gutenberg. Come risultato di tutto ciò, la tecnologia del disco è assai più goffa e offre ben pochi vantaggi rispetto allo scrivere a mano. Inoltre risale ad un'epoca in cui la conoscenza della scrittura era riservata a pochi scribi di palazzo: la domanda per un oggetto così bello doveva essere assai limitata, e così pure gli incentivi per la produzione in larga scala dei molti caratteri necessari. Nell'Europa della fine del Medioevo, invece, l'esistenza di un mercato di massa potenziale convinse molti investitori a prestare denaro a Gutenberg.

La tecnologia ci ha fatto passare dai primi utensili in pietra di due milioni e mezzo di anni fa alla mia stampante laser del 1996 (che ha rimpiazzato quella del 1992, già obsoleta) con la quale ho prodotto il dattiloscritto di questo libro. La velocità del progresso fu impercettibile all'inizio, quando passarono centinaia di migliaia di anni senza alcun cambiamento visibile nella forma dei manufatti o nel materiale impiegato.

Oggi possiamo seguirne l'avanzata sui quotidiani.
In questa lunga storia di accelerazioni, siamo in grado di isolare due cambiamenti epocali. Il primo è il passaggio agli utensili di osso, di pietra ad uso differenziato e di tipo composto. Risale a un periodo compreso tra 100.000 e 50.000 anni fa, e fu probabilmente reso possibile da modificazioni genetiche nella nostra specie, che diedero origine al linguaggio e/o alle funzioni cerebrali superiori. Il secondo balzo fu l'adozione di uno stile di vita sedentario, che avvenne in diversi momenti: in alcune zone anche 13.000 anni fa, mentre in altre non si è ancora verificato ai nostri giorni. Quasi sempre questo passo si accompagnò alla nascita delle produzioni alimentari, che richiedevano una costante presenza accanto ai campi e che permisero 1'accumulo di cibo in eccedenza.

La sedentarizzazione fu decisiva per la storia della tecnologia, perché rese possibile accumulare beni intrasportabili. I cacciatori-raccoglitori nomadi devono limitarsi agli oggetti che possono portar via con sé: la ricchezza di chi si sposta in continuazione, e non ha né carri né animali da montare o aggiogare, è limitata a bambini, armi e poche altre cose assolutamente indispensabili di piccola dimensione - non si può certo andare in giro carichi di vasellame o di torchi da stampa. Questa difficoltà di ordine pratico spiega probabilmente perché in alcuni casi una tecnologia apparve presto ma poi non fu modificata per tempi anche lunghissimi.

 I precursori della ceramica sono considerati alcuni oggetti in creta ritrovati in Cecoslovacchia, vecchi di 27000 anni e quindi molto più antichi dei primi recipienti di terracotta giapponesi di 14.000 anni fa. In quella stessa area si sono ritrovati resti coevi di oggetti che sembrano intrecciati, anche se i primi cesti appaiono con certezza 13.000 anni fa, e i primi tessuti attorno a 9.000 anni fa. Nonostante questa partenza anticipata, né la ceramica né la tessitura presero piede fino a quando la vita sedentaria permise di sfruttarle appieno (poiché non si dovevano portare più in giro vasi e telai).

L'agricoltura, oltre a permettere la nascita della vita sedentaria e quindi 1'accumulazione dei beni, fu decisiva nella storia della tecnologia per un altro motivo. Per la prima volta, alcune società poterono diventare economicamente differenziate, e mantenere una classe di specialisti non dediti alla produzione del cibo. Come abbiamo visto nella seconda parte, 1'agricoltura è nata in tempi assai diversi sui vari continenti.

Inoltre, come ho detto in questo capitolo, la tecnologia di un popolo dipende non solo dalle invenzioni autonome che è in grado di fare, ma anche dalla diffusione delle idee e delle tecniche tra le società; ecco perché il progresso fu più rapido in quelle zone in cui esistevano meno ostacoli ambientali ai contatti tra popoli. Infine i continenti con il numero maggiore di società sono avvantaggiati, perché - essendo ognuna di esse più o meno pronta ad accettare le novità, per vari motivi - hanno la più alta probabilità che ce ne siano alcune disposte al cambiamento.

Concludendo, a parità di altre condizioni, la tecnologia progredisce più rapidamente in vaste aree ricche di risorse, abitate da popolazioni numerose, divise in società in competizione tra loro, all'interno delle quali esistono molti potenziali inventori.
Vediamo come le variazioni in questi tre fattori chiave - data di nascita dell'agricoltura, facilità di contatto, e dimensione della popolazione - abbiano portato in modo diretto alle differenze tra i continenti che possiamo oggi osservare. L'Eurasia (con il Nordafrica) è la più vasta estensione terrestre del pianeta, che ospita il più alto numero di popoli. Qui si trovano i due centri in cui l'agricoltura sorse per prima (Mezzaluna Fertile e Cina); e il suo orientamento principale secondo l'asse est-ovest permise a idee e invenzioni di circolare abbastanza rapidamente tra terre situate alle stesse latitudini e dal clima simile. La sua larghezza anche lungo l'asse minore nord-sud contrasta nettamente con le Americhe, dove la strettezza dell'Istmo di Panama costituisce un ostacolo. L'Eurasia non ha le grandi barriere ecologiche che attraversano da est a ovest l'Africa e l'America. Grazie a tutti questi fattori, in questo continente il progresso del post-Pleistocene iniziò prima che in ogni altro, con il risultato che si accumulò la più grande quantità di tecnologie.

Le due Americhe sono in genere viste come continenti separati, ma sono state unite per milioni di anni, hanno problemi analoghi a nord e a sud, e possono venire considerate come un tutt'uno. Sono la seconda massa continentale del pianeta, anche se assai più piccola dell'Eurasia, ma sono frammentate da barriere geografiche ed ambientali: ad esempio, l'Istmo di Panama è un ostacolo fisico tra nord e sud, mentre le foreste di Darien e il deserto messicano sono ostacoli ecologici. Le prime tennero divise le avanzate popolazioni del Mesoamerica da quelle delle Ande e dell'Amazzonia, mentre il secondo rese difficili i contatti tra Messico e Stati Uniti meridionali. In più, l'asse principale del continente è quello nord-sud, il che rende la diffusione di specie più difficile a causa del gradiente di latitudine (e di clima).
Ad esempio, la ruota fu inventata in Mesoamerica, e il lama fu domesticato sulle Ande, ma in 5.000 anni l'unico animale da traino e l'unica tecnologia utile per i carri del continente non riuscirono ad incontrarsi - anche se la distanza in linea d'aria tra le due società in questione (2000 chilometri) era assai minore di quella tra Francia e Cina (13 000), due luoghi che condividevano ruote e cavalli.

L'Africa subsahariana è la terza massa continentale per estensione. Nel corso della storia fu assai più accessibile dall'Eurasia rispetto alle Americhe, ma la barriera ecologica costituita dal deserto del Sahara è molto forte. Anche in questo caso l'asse principale è nord-sud, il che pone ulteriori ostacoli alla diffusione della tecnologia sia interna che venuta dall' esterno. La ceramica e la metallurgia del ferro, ad esempio, furono inventate (o importate) nel Sahel almeno all'epoca in cui apparvero in Europa. Ma la ceramica non raggiunse la punta meridionale dell'Africa prima dell'anno I d.C., e la metallurgia vi fu portata solo dagli europei via nave.

L'Australia, infine. E il continente più piccolo e meno ricco di risorse, e la scarsità cronica di piogge rende l'area abitabile ancora più ristretta. E anche il più isolato, e quello in cui l'agricoltura non sorse mai spontaneamente. Questi fattori resero l'Australia anche l'unico continente privo di attrezzi metallici fino in tempi moderni. La tabella 13. I traduce questi discorsi in numeri. Non sappiamo quale fosse la popolazione di ogni continente 10.000 anni fa, poco prima della nascita dell'agricoltura, ma sicuramente le proporzioni relative erano le stesse, perché molte delle zone più produttive al giorno d'oggi erano anche le più ricche di risorse per i cacciatori-raccoglitori di allora. Le differenze sono chiarissime: l'Eurasia è quasi sei volte più popolosa delle Americhe, quasi otto volte più dell'Africa, e 230 e volte più dell'Australia.
Immagine
Una popolazione più numerosa significa più società, più competizione e più inventori: la tabella 13 .1 dice da sola molte cose sull'origine delle armi e dell'acciaio in Eurasia. Tutti questi effetti dovuti alle differenze di area, popolazione, barriere naturali e presenza dell'agricoltura si ingigantirono col passare del tempo, perché il progresso tecnologico si autocatalizza. Il buon vantaggio iniziale dell'Eurasia era diventato un gap incolmabile nel 1492, per motivi che avevano a che fare con la geografia particolare di questo continente, e non con la particolare intelligenza dei suoi abitanti. Conosco indigeni della Nuova Guinea che potrebbero essere dei potenziali Edison; ma il loro popolo ha diretto i suoi sforzi creativi in modo tale da risolvere i suoi problemi: sopravvivere nella giungla senza l'aiuto della tecnologia importata da fuori. Inventare il fonografo non era tra le loro priorità.

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Antropologia del Mondo Contemporaneo

30/4/2013

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L'antropologia del mondo contemporaneo

Marc Augè, Jean Paul Colleyn (2006) Ed. Elèuthera 
Riassunto di Elisabetta Pintus – Università di Cagliari

Comprendere il mondo contemporaneo: etnologia ed antropologia
L’etnografia definiva inizialmente (tra fine del XIX e l’inizio XX secolo) la descrizione degli usi e dei costumi dei popoli "primitivi"; l’etnologia definiva le conoscenze enciclopediche che era possibile ricavarne, presentandosi quindi come ramo della sociologia dedicato allo studio delle società primitive; l’antropologia (senza attributi) era riservata allo studio dell’essere umano nei suoi aspetti somatici e biologici, studio dell’evoluzione biologica degli esseri umani e della loro evoluzione culturale nel corso della preistoria.
Negli anni ’50 Claude Lévi-Strauss introdusse l’uso anglosassone del termine "antropologia" in quanto studio degli esseri umani in tutti i loro aspetti, detronizzando (ma non eliminando) il termine "etnologia": il successo dello strutturalismo ha fatto sì che parlando di antropologia si intenda la disciplina che si occupa della diversità contemporanea delle culture umane, accezione che presenta il vantaggio di una maggiore obiettività, scartando l’idea di un campo chiuso costituito dalle società primitive che non hanno possibilità di trasformandosi. L’abbandono del punto di vista etnocentrico (che voleva dire classificazione di razze/etnie/società con criteri che consacravano la superiorità dell’occidente) ha permesso di riabilitare il termine "etnologia", allargandola al mondo moderno, concependola come lo studio teorico fondato su una scala limitata, sull’immersione prolungata del ricercatore nel campo, sull’osservazione partecipante e sul dialogo con gli informatori.
L’antropologia come scienza dell’uomo comprende l’antropologia fisica e l’antropologia culturale e sociale, che si interessa di tutti i gruppi umani, quali che ne siano le caratteristiche, e può prendere come oggetto di studio tutti i fenomeni sociali che richiedono una spiegazione per mezzo di fattori culturali.

Le sfide dell’antropologia

A differenza della maggior parte degli animali, l’essere umano non è legato a un ambiente specifico: a lui si offre l’intero pianeta e grazie alla sua cultura egli si sa adattare in territori diversi. Le sue determinazioni biologiche lo rendono capace di vari comportamenti, che gli permettono di svilupparsi non solo in un ambiente naturale, ma anche in uno specifico ambiente sociale e culturale: la condizione umana non è pensabile se non in termini di organizzazione sociale, l’essere umana si pensa soltanto al plurale, non si pensa singolo e solo. Ogni pensiero dell’uomo è sociale, e quindi ogni antropologia è anche sociologia. Apprendere routine e abitudini dispensano gli uomini dalla necessità di riflettere e prendere decisioni in ogni momento: gran parte dei nostri comportamenti sfuggono alla rappresentazione cosciente, pur obbedendo a delle regole e seguendo un modo adeguato di comportarsi in società, con un senso incorporato e non rappresentato; questi automatismi liberano gli esseri umani e li rendono capaci di innovare, anche se diventano fardelli nel momento in cui non si cambiano velocemente come richiesto dal contesto.
L’antropologia studia i rapporti intersoggettivi tra i nostri contemporanei, con rapporti d’identità e di alterità che sono in continua ricomposizione: vengono usati la lingua, la parentela, le alleanze matrimoniali, le gerarchie politiche e sociale, i miti, i riti, le rappresentazioni del corpo. L’oggetto specifico dell’antropologia è come sia concepita dagli uni e dagli altri la relazione tra gli uni e gli altri: è tale relazione che riveste un senso, che mette in luce rapporti di forza, è simbolizzata; è un interesse per lo studio della relazione con l’altro, così come si costruisce nel suo contesto sociale. La questione del senso, dei mezzi con cui gli esseri umani che abitano in uno spazio sociale si accordano sul modo di rappresentarlo e di agire al suo interno, è l’orizzonte del procedimento.
Il ricercatore deve mettere sempre in discussione i propri comportamenti a priori e mettersi nella posizione di chi apprende, posizione comunque obbligata in un ambiente poco familiare, cercando quindi di non appiccicare le proprie idee preconcette sulle proprie osservazioni ma mantenere sempre una certa distanza al fine di mettere tali osservazioni in prospettiva con informazioni rilevanti desunte da altri contesti. Il concetto di alterità non si colloca soltanto al centro del procedimento antropologico per il fatto che questo tratterebbe delle diversità, ma ne è lo strumento: un progetto di ricerca implica uno scarto tra osservatore e oggetto, evitando di produrre un certo esotismo selezionando indizi piccanti e non confondendo analista e oggetto. Questo perché le informazioni ormai viaggiano a velocità elettronica da un estremo all’altro del pianeta, e ciò porta a mettersi a confronto con l’immagine del mondo. La concezione della persona umana e le relazioni tra questa e l’ambiente non restano inalterate, considerando le applicazioni come agricoltura chimica, antibiotici, OGM, ricerche del DNA, clonazione… Ormai quasi ovunque ci si interessa delle differenze di linguaggio, usi e costumi, con una sempre maggiore consapevolezza della loro interdipendenza, delle differenze e della trasformazione del mondo.
L’antropologia così prodotta non ha come fine la conoscenza, ma la costruzione di un’identità, l’espressione di una strategia politica: il processo di globalizzazione cammina insieme alle rivendicazioni politiche che vogliono riaffermare culture e tradizioni etniche.
Le categorie del senso comune sono attualmente veicolate dalla stampa che prende a prestito le modalità di linguaggio politiche, artistiche, sociali e scientifiche, portando a espressioni inesatte (non ci sono mondi come tali, ma sono in stretta relazione tra di loro) ma intuitivamente giuste (rimanda i riflessi cangianti dei mondi costruiti nello specchio di un’umanità compresente a se stessa). Non esiste più alcuna isola culturale, tutti gli spazi investiti e simbolizzati dall’uomo si analizzano in un contesto globalizzato. Quasi tutti i popoli della terra vedono le proprie condizioni di vita determinate da decisioni prese in luoghi lontani da loro e subiscono un dominio economico, politico e culturale esercitato da poteri e forze esterne; vivono concretamente le conseguenze di fenomeni demografici, biomedici, ecologici, economici e politici che a loro sfuggono ma che li avvicinano ad altri gruppi anch’essi vittime.

Il mondo contemporaneo

La contemporaneità è definita dal fatto di vivere nella stessa epoca e di condividere riferimenti comuni, anche se viaggiando tra le diverse culture si ha la sensazione di viaggiare anche nel tempo. Ma la cosa più importante è che bisogna scegliere con accortezza oggetto di ricerca e metodologia da adottare sul campo, senza però ridurre l’indagine alle relazioni interpersonali in situ, poiché queste trovano, al di là del punto di vista interno, un secondo livello di spiegazione nello studio delle determinazioni esterne (di ordine geografico, demografico, economico, storico, politico, istituzionale…). La base è la descrizione minuziosa dei comportamenti umani nel loro contesto storico e culturale e il confronto con altre forme nel tempo e nello spazio, prospettando, attraverso il confronto tra modelli, norme, schemi culturali e orizzonti di pensiero, una condizione umana in costante ridefinizione.
L’antropologia dei mondi contemporanei riconosce la pluralità delle culture e i loro riferimenti comuni e le differenze interne alla singola cultura, non più pensato come un sapere condiviso al cento per cento, a come una pluralità di forme, nella quale il bagaglio culturale dei suoi membri varia a seconda della posizione sociale. Il concetto di acculturazione indica l’insieme dei fenomeni prodotti dallo scontro tra due culture differenti, ma presuppone che all’inizio esistano due insiemi puri e omogenei; problema non risolto dal concetto di ibridazione: i termini troppo generali o troppo globali sono scarsamente utili. L’adozione di una prospettiva sistemica non impedisce di tenere conto della variabilità e del cambiamento e del punto di vista degli attori: di queste prospettive diverse ha bisogno l’antropologia.
L’antropologo costruisce il proprio oggetto di studio, sceglie un tema legato a forme di vita collettive, va sul campo per effettuare l’indagine, deve leggere la letteratura dedicata a quell’oggetto di ricerca (deve sapere come sono stati definiti storicamente i concetti e le problematiche che utilizza), intraprende la scrittura dei risultati: sono queste le 4 fasi del suo lavoro.

Dall’etnografia di emergenza all’antropologia generale

Nel periodo classico, l’antropologia si occupava dello studio di piccole società esotiche, tenendo conto del loro contesto immediato; portava il segno dell’etnografia di emergenza o di salvataggio, che aveva come scopo prioritario la descrizione di società sul punto di scomparire davanti all’espansione della civiltà europea: oggi il contesto si estende al pianeta intero, ormai le genti sono locali solo in funzione di una specifica configurazione storica. La descrizione etnografica, combinata ad altri metodi, appare una tappa necessaria per qualsiasi studio serio dei fenomeni nuovi che risultano dalle complesse relazioni tra contesti di dominio e minoranze o movimenti politico-culturali. L’antropologia passa progressivamente dallo studio dei popoli a quello dei temi.

La diversificazione degli ambiti di studio
La diversità degli argomenti porta a una specializzazione crescete, che porta a una proliferazione di attributi, che nascono spesso per comodità istituzionale, ma sono sancite dall’uso. Questi ambiti sono oggetti empirici differenti e non sottodiscipline, che rischierebbero di condannare l’analisi a una forma di chirurgia selvaggia, mentre sono tutti interdipendenti. Per questo anziché dire antropologia dell’infanzia, dell’educazione, della guerra, dell’arte ecc, si preferisce dire antropologia giuridica, religiosa, medica, urbana: questo permette di conservare l’idea di una prospettiva antropologica unitaria, conservando l’umanità nel suo insieme come proprio campo visivo. Anche se è importante specializzarsi, bisogna conservare la visione generale e contrastare la ghettizzazione dei saperi.
L’antropologo mira a raggiungere una verità di cui sono portatrici le persone che interroga, trasformandosi in un indigeno per capire i progressi e i limiti.
C’è l’abitudine di formare termini composti con il prefisso "etno", che fanno pensare che il campo, l’atteggiamento e l’attività debbano tenere conto dei fattori culturali. Si parla di etnoscienze, intese o come rami dell’etnologia, o come saperi di altri popoli in un campo particolare o come studio comparativo di un campo in funzione dei gruppi culturali, il termine etnostoria indica un ramo della storia che si occupa delle società senza scrittura, dove non è applicabile la storiografia classica; l’etnobotanica si dedica sia allo studio delle piante usate dai popoli sia alla teoria indigena delle piante; l’etnomedicina è lo studio delle altre medicina e lo studio delle teorie degli altri riguardo alla medicina (cosa che vale sia per la storia, psichiatria, musicologia…). Sarebbe meglio però parlare di prospettiva di ricerca che non di campo disciplinare. Le etnoscienze assumono un’ulteriore accezione con cui si indica l’analisi delle classificazioni e dei processi attivati dalle diverse culture nei campo del sapere e delle sue applicazioni, abbracciando parzialmente l’insieme delle ricerche dell’antropologia cognitiva. Esso tenta di rispondere con il ricorso a metodi rigorosi alla questione di sapere come si costruisca, localmente, il mondo naturale. Caso a parte l’etnometodologia, tendenza della sociologia americana che applica i metodi dell’etnologia all’osservazione e all’analisi della vita quotidiana: qualsiasi gruppo sociale è in grado di comprendersi, commentarsi, analizzarsi, e gli etnometodi sono le procedure che i membri di una società usano per produrre il proprio mondo, riconoscerlo e renderlo familiare.

Studio delle società: la parentela
La parentela e le regole di alleanza matrimoniale sono al cuore dello studio delle società ristrette, dove solo questo studio permette di capire qualcosa dei rapporti sociali. Dovunque nel mondo le relazioni tra gli esseri umani restano in gran parte codificate dalle strutture di parentela (legami di filiazione, di germanità e di alleanza), codificazioni di natura storia, è evidentemente sociale e non biologica.
Il primo teorico della parentela fu l’americano Lewis Henry Morgan, che osservò, presso gli Irochesi, come utilizzassero lo stesso termine per indicare un parente e individui che non facevano parte dell’albero genealogico, e propose il concetto di parentela classificatoria: per organizzare la propria vita sociale, le diverse società hanno imposto un ordine al dato biologico, ed è per questo che bisogna studiare caso per caso la terminologia di parentela, le regole di discendenza, di matrimonio e di residenza. Alcuni pensano che non si possa separare la parentela da altre sfere della vita sociale, come ad esempio quella economica e giuridica.
Molto importante è la terminologia di parentela: comportano sia i principi di filiazione sia quelli di alleanza. Tutte le società sono principalmente endogamiche, ma con un principio esogamico, cioè evitare di sposarsi con parenti prossimi, senza però nessuna legge naturale: quindi interviene la cultura e sancire il limite. Tra i sistemi d scambio matrimoniale si distinguono quelli elementari (prescrivono o consigliano una forma precisa di matrimonio, ed è la nascita che indica la scelta del coniuge), quelli semicomplessi (il meccanismo delle proibizioni restringe la scelta dei possibili coniugi, precisando con quale gruppo sia possibile sposarsi) e quelli complessi (libertà di scelta, limitata solo da determinismi di natura sociale). Sono in genere sistemi complessi quelli che obbligano chi prende moglie a pagare un compenso matrimoniale.
Può sembrare che la filiazione abbia un fondamento biologico, ma è anch’essa codificata dalla cultura. Esiste un legame di filiazione tra due individui quando l’uno e l’altro discendono da una stessa persona, determinando così il gruppo al quale appartiene un individuo. È il principio che precisa la trasmissione della parentela, assegna a ciascuno uno status, definisce i gruppi sociali funzionali: indicano i gruppi sociali definiti dalla parentela che si innestano gli uni negli altri. Il lignaggio riunisce le persone che si considerano discendenti di un comune antenato e che possono ricostruire la propria genealogia partendo da quell’antenato: si parla di patrilignaggio e di filiazione patrilineare se la parentela è trasmessa dagli uomini, altrimenti matrilignaggio e filiazione matrilineare. I gruppi concreti sono strutturati secondo un riferimento di lignaggio, ma presentano anche membri di altri lignaggi, come sposi e spose, parlando quindi di gruppi di lignaggio, che possono dividersi in segmenti per limitazioni materiali o sociali, ma a volte continuano a intrattenere relazioni, altre volte rimane solo un vago sentimento di filiazione e ogni segmento diventa un lignaggio a sé.
Il clan è un gruppo i cui membri si considerano discendenti di un antenato comune leggendario o mitico, senza ricostruire una genealogia precisa. Ogni clan riunisce un certo numero di lignaggi apparentati, parlando di patriclan / clan paterno o di matriclan / clan materno. In certe società l’appartenere a un clan determina tutta la vita sociale, in altri casi possono avere meno impatto sulla vita quotidiana. Nei sistemi bilineari l’individuo è legato a certi gruppi in ragione della sua discendenza maschile e ad altri in ragione della sua discendenza femminile; in un regime di filiazione indifferenziata (o cognatica) si tiene conto di tutt’e due le discendenze: ognuno fa quindi parte di gruppi parentali che si sovrappongono, e diventa impossibile costituire gruppi permanenti, a meno di tenere conto solo di certi antenati

Studio delle società: economia, ambiente, ecologia

In società non così integrate nell’economia di mercato come in occidente, era impossibile applicare la scienza economica: in ogni luogo dove l’economia non era un settore autonomo, era difficile parlare di allocazione delle risorse, di profitto, di domanda e offerta, di compravendita… Dopo la scoperta di cerimonie spettacolari che davano luogo a distribuzione e distruzione massiccia di beni, svaniva l’idea del selvaggio che cercava solo di sopravvivere: dà luogo alla teoria dello scambio e del dono. Ci si era accorti che in certe società lo scambio non aveva sempre finalità economiche, e perciò non lo si poteva studiare se non tenendo conto del contesto: alcune avevano lo scopo di attestare pubblicamente lo status dei gruppi presenti, avevano l’effetto di neutralizzare il surplus sul piano economico, era una modalità di esercizio del potere.
Le analisi degli scambi cerimoniali lasciavano in ombra sfere meno prestigiose di produzione e scambio, ma ci si rese conto che nella maggior parte delle società che non sono governate in prevalenza dall’economia di mercato, non esiste alcun termine che designi l’economia come settore autonomo. Gli studi sulle relazioni tra gli uomini e il loro ambiente erano all’inizio di tipo determinista: le diverse società o culture dovevano le loro caratteristiche all’ambiente in cui si erano sviluppate; l’andamento culturale seguiva la stessa logica di quello biologico darwiniano. Ben presto però è venuto alla luce il fatto che le differenze di organizzazione sociale e le caratteristiche culturali non si potevano spiegare solo in base alle limitazioni date dall’ambiente, visto che molte società sullo stesso territorio avevano forti differenze, mentre società su territori diversi avevano forti analogie. Negli anni ’50 tornò in voga il vecchio pensiero, sotto il nome di "ecologia culturale" e poi di "materialismo culturale": tutti i tratti culturali (dalla tecnologia ai riti, passando per l’habitat e i sistemi di parentela) corrispondono a scelte razionali in funzione delle esigenze locali di adattamento. Pur avendo constatato che non sempre era così, alcuni studiosi utilizzarono il termine "ecosistema" per indicare l’insieme delle relazioni di scambio materiale in un ambiente dato: questo modello ha il merito di riconoscere che, se l’ambiente incide sulla vita collettiva degli esseri umani, anch’essi incidono sull’ambiente, ma mette in secondo piano il concetto di cultura, non più studiato per sé ma in relazione a come vengono portati a termine gli scambi. Secondo altri ricercatori favorevoli all’etnologia si dovrebbe mettere l’accento sul bisogno di comprendere le motivazioni che spingono gli attori a prendere certe decisioni.
Da queste discussioni emerge il fatto che le configurazioni locali sono molto più complesse di quanto non si pensasse. Molto interessante è l’analisi dei diversi tipi di mediazione che i gruppi umani operano con il non-umano: porta alla nascita delle etnoscienze, che studia i procedimenti scientifici così come sono appresi dalle diverse culture. Nelle sue espressioni più avanzate l’antropologia cognitiva si avvicina alla psicologia: tenta di avvicinare i propri criteri di scientificità a quelli delle scienze sperimentali, ma si scontra con le difficoltà della raccolta di informazioni sul campo, che non è mai pura, ma dipende dalle ipotesi e dai fulcri di interesse del ricercatore; procede in senso contrario rispetto al metodo strutturalista, con le sue classificazioni, ragionamenti, meccanismi mnemonici, rappresentazioni attinenti a tutte le branche del sapere. Il metodo strutturalista invece parte da un corpus diversificato di produzioni sociali per ridurli ad alcune strutture fondamentali che definiscono gli spazi mentali del pensiero; il metodo cognitivo parte dai meccanismi mentali attivati dall’individuo per pensare e agire in modo idoneo in quanto membro di una società, metodo che è vicino alle ricerche di psicologia sperimentale, di linguistica, logica e neurologia: si assiste a un riavvicinamento delle scienze naturali alle scienze sociali, dal momento che la cultura fa parte della natura.

L’antropologia del politico
Si presenta come un mezzo per prendere le misure d’insieme del campo dell’antropologia: occupa perciò un posto a parte, in quanto la variabilità delle forme di organizzazione politica è servita da criterio tipologico per identificare le formazioni sociali. Parte dal tentativo di spiegare la genesi dello Stato: la nascita di un potere centrale autonomo non risulta mai provocata da una causa unica e universale, ma può essere associata alla conquista, allo sfruttamento economico di una classe sociale su un’altra, all’esistenza di un surplus, al controllo degli armamenti, alla necessità di organizzare la produzione. In molte società non è possibile configurare il livello politico senza passare attraverso lo studio del fatto religioso: alcune società possono essere governate senza che una classe dirigente eserciti, attraverso un governo centrale, una vera e propria sovranità su un’unità territoriale ben definita, poiché politico non può essere ridotto a potere. Il potere può esprimersi attraverso una serie di prestazioni reciproche tra il capo e i membri del gruppo.
In certe società studiate può esistere uno stretto intreccio tra Stato e parentela, possono rivestire una funzione importante anche gli scambi matrimoniali, allargando la rete di alleanze. Le società sprovviste di istituzioni centralizzate e dove le relazioni tra gruppi di lignaggio non sono regolate da una specifica autorità sono definite società segmentarie, dove l’importanza delle unità politiche in gioco dipende dalla fusione o dalla contrapposizione dei segmenti di lignaggio in rapporto tra di loro; in altre società i gruppi di parentela sono controbilanciati da classi di età, da gruppi gerarchizzati di individui che attraversano insieme i riti di iniziazione socio-religiosi. D’altronde, i dispositivi del potere passano spesso attraverso i riti e le rappresentazioni cosmologiche. L’istituzione reale presenta spesso una dimensione sacra: il re si trova alla congiunzione del mondo divino con quello sociale e la sua funzione è indispensabile per la perpetuazione dei ritmi cosmici e per la celebrazione delle grandi cerimonie annuali, con un potere tanto più legittimo quanto più appare inserito nell’ordine naturale e deve la propria efficacia all’ignoranza dei meccanismi che lo fondano. L’ordine che ne deriva può essere più o meno esplicito e non comporta l’emissione di norme giuridiche, se no quando la loro violazione dà luogo a una sanzione inflitta da una o più persone qualificate a farlo.
Per questo il problema della genesi dello Stato ha lasciato il posto allo studio della diversità dei modi di esercizio del potere, dei meccanismi di dominio, delle forme di funzionamento dello Stato. L’antropologia del politico si interessa anche delle diverse modalità che danno luogo alla territorialità, delle stratificazioni sociali, dello status e dei ruoli, dell’esercizio legittimo della forza, del conflitto, delle relazioni tra legge, diritto di appropriazione e politica, dove non basta studiare le regole, ma bisogna tenere conto delle pratiche che ci sono quando le si osserva in situazioni specifiche. Per questo si fa una distinzione tra potere e autorità, che implica una certa legittimità rispetto al potere.
A partire dagli anni ’70, sull’onda dei filosofi post-strutturalisti, si discute delle relazioni di potere: il potere di certi capi locali, sotto il colonialismo, poteva essere cresciuto o diminuito, ma in ogni caso era cambiato.
La violenza è uno dei temi più rilevanti: il corpo diventa uno strumento al servizio di una causa (come per i terroristi), lo sciopero della fame, l’attentato suicida… La radicalizzazione delle posizioni in campi opposti determina il coinvolgimento fisico, il passaggio all’atto e l’esplosione di violenza, da cui trae linfa anche la propaganda politica, fino a sfociare in un programma di sterminio. La guerra si presenta come un termine troppo inglobante, con diverse forme: guerra istituzionalizzata, convenzionale, iniziatica, economica, civile o militare, consuetudinaria, modo di produzione; ogni guerra, comunque, vede contrapposte unità politiche localizzate. Prima ci si basava su teorie rigidamente etniche, poi ci si è concentrati sul carattere storico del diritto coloniale, dei gruppi etnici e del carattere dinamico del politico: l’etnia non può essere paragonata a una specie naturale che sopravvive o si estingue, ma va analizzata come un fenomeno storico, come un processo, dove sono importanti anche il conflitto e la contraddizione.
Ora ci si sta concentrando su clientelismo, ereditarietà delle funzioni, legami tra poteri locali e Stato. Il multiculturalismo è un fenomeno complesso, nel quale è necessario distinguere tra l’affermazione di differenze irriducibili e il principio di una società più aperta: l’immigrazione porta a una specie di etnicizzazione dei diversi gruppi migranti, che si spiega come un indebolimento della forza di attrazione che spinge all’assimilazione e all’integrazione. La politica è anche l’arte di amministrare e produrre soggetti, cittadini.
L’antropologia del politico trova in certi casi difficoltà a conservare un atteggiamento descrittivo o esplicativo libero da qualsiasi dimensione normativa, con l’invito a entrare come consulenti al servizio di istituzioni in continua ricomposizione.

L’antropologia della religione
Si inserisce in una tradizione materialista, svincolata da interpretazioni teologiche, segnata per molto tempo dalle religioni del Libro: per gli occidentali è difficile staccarsi dall’idea di una religione monoteista, legata a un testo, esclusiva, cui si accede grazie a una conversione. Ovunque l’uomo ha cercato di raggiungere le verità nascoste che stanno al di là della percezione normale, formulando ipotesi sulle energie che reggono il mondo e cercando di rendere visibile l’invisibile, utilizzando concetti come energia, forza, volontà, anima, slancio vitale, soffio vitale, estranei ai pensatori occidentali, non avendo il monopolio della metafisica, intesa sia come ricerca delle cause nascoste al di là della percezione immediata sia come speculazione sistematica.
I concetti di fede e di credenza sono tanto più difficili da gestire quanto più la religione sembra coestensiva alla cultura nel suo insieme. Una buona parte della religione è costituita da pratiche meccaniche e da tecniche, da protocolli per cerimonie, sacrifici e preghiere: fino agli anni ’60, le rappresentazioni e le pratiche religiose servivano sia alla coesione sociale e alla struttura del potere sia a rispecchiare una visione del mondo naturale e sociale. Una credenza religiosa (secondo Durkheim) è sempre vera quando svolge una funzione sociale, i riti esprimono e rafforzano la solidarietà di gruppo, di modo che il culto è in realtà dedicato al gruppo stesso. La divisione tra sacro e profano, però, dal momento che la società non è omogenea, solleva discussioni, dal momento che non si trova un punto d’accordo per la definizione di sacro.
Oggi la religione viene messa in relazione al processo di legittimazione dell’autorità, alle espressioni di risentimento dei dominati, agli interessi di classe e alle strategie dei singoli, il rito si presenta come un prolungamento della lotta politica, o come vettori di informazione o come espressioni di una visione del mondo.
Tutti i popoli classificano in varie categorie le specie, gli elementi, le sostanze della natura e i fenomeni climatici: secondo Sapir e Whorf, esiste una relazione necessaria tra le categorie e la struttura del linguaggio e il modo in cui gli esseri umani apprendono il mondo.
Se per un verso il rito non si confina nella sfera religiosa, non esiste religione senza rito, a cominciare dai riti di passaggio, che passano attraverso fasi precise scandendo il ciclo dell’esistenza degli individui e strutturando la società, passano attraverso iscrizioni irreversibili sul corpo, e si considera spesso il funerale come l’ultima fase del rito di passaggio. In ogni caso è necessario dare un senso di finitezza del corpo individuale, mentre il corpo sociale sopravvive, con una forte influenza di Freud su questo tema, nella scuola americana della cultura e personalità per esempio. L’interesse di queste ricerche consiste nello sforzo di articolare il livello individuale e quello collettivo, superando l’idea di una causalità a livello del singolo: se pure la religione spesso risponde ai bisogni dell’individuo, non è per soddisfare questi bisogni che i membri di una data società sono religiosi; a ciò si aggiunge la scoperta che in molte culture l’individuo è considerato una riunione effimera di elementi diversi, che in parte esistevano prima della sua nascita e in parte sopravvivranno alla sua morte, che ha messo in crisi la strutturazione delle istanze della personalità così come proponeva Freud. I dispositivi rituali funzionano come mediazioni necessarie all’azione di uomini su altri uomini, che operano dietro ai rapporti degli esseri umani con la natura e con gli dei; i destinatari proclamati dei riti possono essere dei, geni o antenati, ma non sono altro che mediatori di una relazione tra umani, con una relazione simbolica, attingendo dai campi religioso, sociale, psicologico e estetico.
Difficoltà anche con il lessico: i termini si dimostrano troppo rigidi quando contribuiscono a cristallizzare gli oggetti che cercano di definire; altri sono troppo polisemici, imponendo di volta in volta la messa a punto, come con "riti" e "rituali", per non parlare del termine "religione" come se fosse una dottrina ben definita, separandola da magia e stregoneria, con i quali è invece strettamente collegata. Le critiche sono state sferrate dallo strutturalismo, che ha richiamato l’attenzione sul lavoro di costruzione simbolica e sulle categorie della comprensione, e dall’ermeneutica, che ha tentato di esprimere la realtà sociale dall’interno, rendendo più problematico il processo di scrittura e l’inchiesta sul campo. L’antropologia cognitiva invece cerca di sottrarre lo studio della religione alle speculazioni e agli a priori concettuali, concentrandosi sui principi che spiegano la genesi delle credenze, utilizzando solo informazioni elaborate con metodi controllati.
Altro problema è l’autonomizzazione del campo religioso, poiché è inserito nel campo delle modalità di pensiero: il concetto di sovrannaturale non è universale, ma si è imposto nella civiltà occidentale insieme a quello di scienze naturali. Si contrappone il campo della natura, osservabile scientificamente, a quello dell’immaginario, dei miti e delle superstizioni, alla parte irrazionale.

L’antropologia della performance
Alla fine degli anni ’70 si passa da una scienza dei fatti, delle norme, delle strutture, a una scienza dei processi: le etnie non sono più entità chiuse e compiute, ma produzioni storiche in divenire. In tutte le maniere di usare il corpo umano dominano i fatti dell’educazione; il concetto di habitus mira a rendere conto dell’acquisito, che si incarna nei corpi e nelle menti sotto forma di disposizioni durevoli, che si possono osservare nelle posture, nei gesti, nelle mimiche, nell’espressione dei sentimenti. Gran parte della vita sociale e dei processi cognitivi non passa dal linguaggio ed è difficile esprimerla verbalmente: per questo si ricorre alla fotografia e alle registrazioni audiovisive, che mettono in luce  aspetti importanti che non sono costitutivi sul piano del linguaggio.
La società è permeata di teatralità: ed è per questo che nasce il campo interdisciplinare chiamato performance studies, campo che comprende teatro, musica, danza, riti, preghiere, sacrifici, tradizioni orali, carnevali. L’evento è destinato a produrre effetti sul pubblico, che ne è spesso partecipe; la comunicazione con un altro mondo passa soprattutto da messe in scena suggestive che avvicinano il rito all’arte, con una loro dimensione estetica: qualsiasi religione ha bisogno di bellezza, regia, spettacolo, poiché nel rito sono in gioco aspetti profondi della coscienza umana, il rapporto con l’universo, il ciclo della vita e della morte, il mistero della procreazione… La traduzione di performance con spettacolo gli fa perdere la dimensione performativa, secondo la quale l’oggetto e la sua creazione si confondono, producendosi simultaneamente: anche gli spettacoli rituali sono performances, vanno al di là di se stessi, si mettono in gioco, fanno parte delle pratiche con cui una cultura si crea e si trasforma.

Cinema etnografico e antropologia visuale

Dopo l’invenzione del cinema, è stato subito messo al servizio dell’uomo e dell’osservazione dei suoi comportamenti, ma oggi il documentario vive all’ombra del grande cinema. In ogni caso, l’invenzione progressiva di apparecchiature sempre più leggere ha reso più facile il lavoro dell’etnologo, che può filmare le situazioni sociali che osserva.
La definizione di cinema etnografico è un po’fuorviante perché raccoglie al suo interno film di esploratori, viaggiatori, registi indipendenti, reporter televisivi: il paradigma esotico è il denominatore comune; sono comunque il più delle volte deludenti, alla continua ricerca di un positivismo e con la diffidenza verso gli artifici del cinema professionale. I filmati erano proposti come se rappresentassero fedelmente una realtà univoca, come se si potesse restituire il reale in modo perfettamente mimetico, indipendentemente dallo sguardo che si poggia su di esso: furono cineasti come Flaherty e Vigo, con uno sguardo più artistico e sociale che scientifico, con una conoscenza dell’arte di proporre un punto di vista, a cambiare il panorama. Erano consapevoli del fatto che gli avvenimenti di natura storica, cioè non inventati dal regista e dagli attori, devono comunque essere raccontati e che il narratore fa parte del racconto. Si parla però sempre di film etnologico e non di film antropologico poiché, in quanto scienza che parla dell’uomo, ogni film è antropologico, come ogni film è sociologico.
L’antropologia visuale riunisce una triplice attività:
- inchiesta etnografica fondata sull’impiego di tecniche di registrazione audiovisiva;
- uso di queste tecniche come modalità di scrittura e di pubblicazione;
- studio dell’immagine in senso lato (arti grafiche, fotografie, film, video) quale oggetto di ricerca
.
Per quanto riguarda la produzione di immagini come oggetti di studio, non si può più partire dal principio secondo il quale i membri di una società pensano e agiscono esclusivamente in funzione di riferimenti culturali etnici semplici e omogenei. L’individuo raccoglie nel corso della propria vita modelli e riferimenti complessi, venuti da orizzonti diversi, dai più locali e dai più radicati nel tempo a quelli più volatili.
Se decide di girare un film, l’antropologo deve dotarsi dei mezzi necessari, poiché il contenuto non può essere disgiunto dalla forma e il mestiere comporta una dimensione artistica. Gli effetti di conoscenza non sono veicolati solo dai contenuti, ma anche dai suoni, dalle immagini, dalle tecniche, dallo stile: deve curare la propria sintassi, ricerca l’espressione adeguata, lavorare sul ritmo, la narrazione, l’emozione. Realizzare un documentario è un’arte discorsiva che comporta centinaia di scelte, come selezionare nella realtà i particolari significativi e mixare il sonoro, con una propria retorica, individuando personaggi e situazioni interessanti. Il film e il video sono mezzi incomparabili per mostrare luoghi, spazi, testimonianze, prese di posizione, atteggiamenti, posture, frammenti di vita. Nonostante tutto ciò, rimane una realtà trattata con una prospettiva particolare (si concentra sul trattamento di un oggetto che è possibile apprendere in mille modi), ben lontana dall’opera di invenzione (la creazione riguarda l’intero oggetto filmico).
Negli ultimi anni abbiamo un’inversione di rotta: sono le stesse persone oggetto di film etnografici che producono le proprie immagini e documentano la propria vita sociale. Così facendo, possono controllare la propria immagine e inviare alla comunità internazionale i messaggi che desiderano.

L’antropologia applicata

Oggi si interviene sempre più come consulenti sui problemi della società, perché chi ha il potere decisionale ha bisogno di una scienza a breve per poter adeguare le proprie scelte nell’immediato. La teorizzazione dello sviluppo è passata attraverso fasi in cui prevalevano preoccupazioni economiche, poi politiche, poi antropologiche, poi di nuovo economiche. A qualsiasi livello sia, nonostante i fallimenti, l’ideologia tecnocratica è potentissima: la razionalità è uno dei grandi miti dell’occidente, ma in materia di sviluppo economico sono tanti quelli che parlano di ragione, sapere, scienza, senza dare alcuna dimostrazione. La resistenza del reale sembra dimostrare che esistono troppi parametri in equilibrio instabile per poter proporre una prospettiva credibile, equilibri instabili accelerati anche dall’esigenza di progressi con efficacia a breve termine.

Etnografie e antropologia delle scienze
La storia e la filosofia sono discipline che esistono da molto tempo, al contrario di etnologia e antropologia che esistono da una ventina di anni, soprattutto sulla produzione scientifica e sulle sue applicazioni tecnologiche. È un campo di ricerca diversificato, fondamentale per la comprensione del nostro mondo in continuo sviluppo: studio della costruzione dell’autorità scientifica, critica delle modalità di esposizione retoriche della scienza, trasformazioni indotte dalle scoperte scientifiche, per citarne alcuni.

Dentro e fuori l’antropologia

È una disciplina di crocevia, ma gli scambi con le altre discipline sono reciproci: l’interesse di molti sociologi per l’antropologia e l’etnologia e per l’osservazione sul campo nasce negli anni ’50 dagli studiosi della scuola di Chicago, seguiti dall’università di San Diego. Non si uniscono, rimangono ben differenti: lo studio dettagliato delle configurazioni locali non si oppone alle logiche strutturali su scala più grande. Tra tutte le scienze umane, è la storia quella che si è ispirata di più ai metodi antropologici, tenendo conto dei fattori culturali. Questo interesse ha portato alla comparsa di nuovi oggetti di studio: teoria della persona, storia del corpo e delle pratiche corporali, della famiglia, del gusto… Lo studio dei sistemi di pensiero esotici ha gettato nuova luce sull’influenza esercitata dall’ideologia cristiana e sull’arte che ne deriva, sugli ideali, sul gestuale, sugli atteggiamenti. La periodizzazione si impone chiaramente come un tema comune all’antropologia e alla storia, come i concetti di mentalità, cultura, ideologia e immaginario.
È nata una nuova "nuova storiografia", che si fonda sull’analisi delle esperienze individuali, si interessa alla costruzione sociale dei ruoli sessuali, studia i problemi metodologici posti dalla biografia, con una prospettiva qualitativa molto vicina a quella antropologica.  Non è possibile fare astrazione dalla storia. Il principio d’integrazione di una qualsiasi unità sociale non procede mai senza contraddizioni e tutte le pratiche sociali, tutti i modelli di comportamento, sono colti all’interno di un movimento continuo di trasformazione; sii hanno nuovi oggetti di studio (migrazioni, profughi, cosmopolitismo…), di chiara natura storica, legate alle scienze politiche. Si osserva anche, nella storiografia come nell’antropologia, un maggiore interesse per l’immagine nei suoi rapporti con il linguaggio. Non c’è dubbio, tra l’altro, che lo scritto abbia favorito l’esercizio del pensiero analitico e il controllo di vaste popolazioni attraverso una struttura amministrativa: l’avvento di sistemi d’istruzione basati sulla scrittura al posto delle immagini e del suono, ha trasformato le leggi della trasmissione culturale, con una rivincita però dell’oralità e del rito.

Sul campo: oggetto di ricerca in ambito antropologico

Il metodo su cui si basa l’antropologia è l’etnografia: è il lavoro sul campo dove il ricercatore partecipa alla vita quotidiana di una cultura differente, osserva, registra, tenta di accedere al punto di vista indigeno e scrive. I fondatori di questo metodo sono Boas (1886, tra gli indiani della costa occidentale degli USA) e Malinowski (1914, tra gli abitanti delle isole Trobriand, Nuova Guinea), aprendo una fase nuova della disciplina basata su monografie, descrizioni minuziose e il più complete possibili, con il loro recarsi di persona a condurre inchieste sul campo anziché speculare sui resoconti di esploratori, viaggiatori, militari e missionari. Hanno contribuito anche a creare l’immagine romantica dell’etnografo impegnato nella descrizione di strani costumi in posti lontani.
La parola campo indica insieme un luogo e un oggetto di ricerca, ed è un termine fondamentale in ambito antropologico. L’efficacia dell’inchiesta sta più nell’apprendimento spontaneo che nella ricerca consapevole e attiva: immergendosi in una cultura diversa dalla nostra, essa informa e forma molto più di quanto si sia consapevoli, grazie al cosiddetto sapere per familiarizzazione o per impregnazione, un sapere che affiora appena alla coscienza, ma che si traduce nella sensazione di conoscere lo scenario nel quale avvengono gli avvenimenti. L’esperienza permette di farci dire che cosa succederà e di non ignorare le regole implicite di una cultura, di non essere totalmente alla mercé della diversità dei fenomeni, ma di riuscire a distinguere l’informazione dai rumori circostanziali. La prova del campo impedisce di abbandonarsi a creazioni arbitrarie, di proiettare su una realtà sociale ciò che si desidera vedervi, di privilegiare i propri interessi soggettivi o quelli degli interlocutori, lottando tra due tendenze opposte: la prima è quella che lascia libero corso alla potenza organizzatrice delle proprie abitudini, banalizzando le impressioni che arrivano dall’esterno; la seconda è quella che spinge a definire la propria missione come una raccolta di differenza, che porterebbe a collocare qualsiasi informazione esterna al suo gruppo di origine sotto in segno di una intrinseca estraneità. In tutti i casi, dev’essere consapevole del fatto che raccogliere un’informazione non significa solo sintetizzare dati sensibili, ma anche modificarli, perché si crea una rappresentazione che prima non esisteva come tale; bisogna distinguere la regola come ipotesi teorica del ricercatore dalla regola come ipotesi teorica dei suoi interlocutori, considerando che la regola che governa realmente i comportamenti può essere distinta dalla prima e dalla seconda. Il lavoro di raccolta dati deve essere subordinato alla costruzione teorica del proprio oggetto di ricerca: la realtà non è data, ma costruita dal ricercatore; la nostra stessa percezione crea per difetto (seleziona le impressioni che corrispondono alle nostre idee) e per eccesso (può esagerare certi tratti). Per questo un ricercatore ben preparato si sforzerà di rimettere in discussione le proprie classificazioni, i propri montaggi della realtà, per essere certo di non creare egli stesso l’oggetto che vuole studiare. Questo esercizio di decostruzione ha faticato a imporsi contro gli a priori empiristi e positivisti: si deve lottare contro i propri automatismi per avere una base solida nelle descrizioni, moltiplicando i punti di vista senza pretendere di abbracciare la totalità dell’oggetto.
Sul campo, l’antropologo si vede proposti in continuazione temi e interessi che non coincidono con le categorie della propria cultura; l’informatore, inoltre, fornisce informazioni che sono inserite dall’antropologo in un insieme che egli ignora: se chi sa non dice tutto quello che sa, il sapere che cede gli è in un qualche modo rubato, fatto imputabile però anche a quello che viene imputato di conoscere l’ uno all’altro. Per questo l’antropologo deve mettersi in ascolto, creare uno spazio anche per gli interrogativi e i dubbi dell’informatore, considerandolo anche un interlocutore.
Se va condannato l’uso esclusivo del questionario, è esagerato però affermare che non serva a niente, perché questi sforzi pedagogici comunque portano a qualcosa, grazie alla capacità di spiegarsi. Per questo, all’inizio di un’inchiesta sarebbe meglio un lungo soggiorno sul campo per conoscere ad osmosi costumi, lingua e usanze, non trascurando gli aspetti non verbali dell’assimilazione dei codici sociali, e stringendo amicizia con gli individui del gruppo: è una condizione simile a quella di uno studente. Deve riflettere su se stesso: una dimensione critica, principio fondamentale dell’analisi transculturale. Negli anni ’70 si è assistito a un proliferare di opere consacrate all’inchiesta sul campo, mettendo in luce il carattere unico di un’esperienza dove l’osservatore è il proprio strumento di ricerca. Il ricercatore, nel corso del proprio soggiorno sul campo, è costretto a immergersi al di fuori della proiezione data dal conformismo verso un ordine particolare del mondo, assistendo a diversi tentativi compiuti dagli uomini per vivere il mondo e dargli un senso, partecipandovi e offrendone testimonianza. L’esperienza del campo provoca un disagio doppio ma salutare: quello materiale (dove capisce che non è scontata nessuna definizione a priori di una vita normale) e quello che lo costringe a lacerare la trama delle abitudini e di idee belle che gli sono servite da protezione. Si sente personalmente trasformato dall’esperienza.
Lo studio del contesto storico nella pratica antropologica ha messo in evidenza la dimensione politica del ruolo dell’antropologo in quanto erede del colonialismo. Lo stereotipo dell’antropologo come maestro è dovuto in gran parte alla scarsità di testi di riflessione che attestino l’impotenza dell’etnografo. Inoltre, quando si confronta con la differenza culturale, fa luce sui fondamenti delle concezioni specifiche della propria cultura. Oltre ai doni e alle retribuzioni, capita spesso che l’etnologo sia recuperato e utilizzato nelle strategie locali, venendogli così difficile rimanere neutrale: certi territori invitano e costringono l’antropologo a impegnarsi moralmente, socialmente, politicamente.
La concezione del campo come spazio di sperimentazione, come laboratorio o come riserva, è oggi contestata dai teorici della globalizzazione e della mobilità delle culture, con movimenti più rapidi di popolazione, con un lavoro sul campo con una forma reticolare per seguire il movimento: si studiano i campi profughi, le comunità virtuali, non andando quindi per forza in una terra incognita.

L'antropologo e la lettura

Antropologia e filosofia non possono fare a meno di confrontarsi e di utilizzarsi a vicenda: coloro che appartengono a una data società si capiscono e capiscono il proprio universo sociale, poiché attivano uno specifico sapere fondato su disposizioni acquisite, schemi di pensiero, esperienze, informazioni, che applicano alla propria situazione personale. I metodi impegnati quindi  si collocano lungo la linea di convergenza dell’individuale e del collettivo: si deve tentare di comprendere tali metodi osservando comportamenti e analizzando discorsi, mettendo a confronto le proprie osservazioni con un sapere accumulato nella letteratura. Gli serve per gestire una certa tensione tra il dialogo che intrattiene sul campo con i suoi interlocutori e quello più astratto che mantiene con i suoi autori: dovrà evitare volta per volta di soffocare le esperienze sul campo con quello che già sa e di stimolare la curiosità grazie alla propria cultura antropologica. Questo differenzia il campo dal reportage.
Bisogna però evitare il neofunzionalismo, che tende a spiegare tutto come sintomo di un’epoca, poiché si rischia di incagliarsi in un determinismo integrale. Ogni ricercatore è collocato nella propria cultura, ma tenta di affrancarsene, impegnandosi in un dialogo con autori di altre epoche, discipline e luoghi. Ciò che si osserva da un punto di vista specifico non si spiega interamente con le condizioni storiche che rendono possibile tale prospettiva: certe verità resistono alla contestualizzazione radicale. I grandi pensatori indossano gli abiti della propria epoca, ma il loro pensiero è di ogni tempo, ma bisogna leggere prospettando una doppia lettura: prima quella del contesto culturale dell’epoca, e poi quella delle conoscenze acquisite da allora. Per un antropologo la lettura svolge una funzione fondamentale nell’apprendimento di una cultura professionale fatta di un insieme di conoscenze, di disposizioni etiche, di valori, di principi pratici.

L'antropologo e la scrittura

L’antropologo è un autore e deve interrogarsi sul linguaggio che impiega e sulla propria scrittura. Se c’è scienza, si basa su una costruzione teorica che a sua volta si fonda su dati, sempre mediati dal linguaggio: la lingua comune veicola tradizioni di pensiero che ne condizionano lo sguardo, la concezione del mondo e la raffigurazione della realtà. Sono stati creati molti neologismi per dare a certi termini un significato più tecnico che permettesse di essere meno vaghi. Prima del 1980, la scrittura tendeva all’imparzialità, alla neutralità, all’impersonalità, perché c’era ancora la logica di rottura con il soggettivismo. Ogni stile postula una teoria (concezione generale di ciò che si discute), una tradizione intellettuale (la letteratura) e un impegno etico (non giudicare ma capire). Oggi gli antropologi si sforzano di esporre i percorsi attraverso i quali sono stati indotti a pensare quello che pensano e tentano di rendere esplicito l’andirivieni tra teoria e campo. Non è più librarsi sull’esperienza degli attori, ma rendere le caratteristiche di situazione e di dialogo dell’etnografia. I testi lasciano più spazio a voci diverse da quelle del ricercatore: voci che escono dagli archivi, dagli interlocutori sul campo, dai filosofi, dai teorici della letteratura, dai narratori; c’è più attenzione alle interazioni sociali, all’antropologia della parola e degli altri fatti della comunicazione, anche perché l’enunciato è sempre relativo a un contesto soggetto a variabili e a incognite. Si cerca di diversificare le fonti, di evitare i portavoce d’ufficiali, di raccogliere il punto di vista femminile, di non ignorare i deboli e i dominati: le società semplici o ristrette non sono unanimi.
La forma del testo prende l’andamento di chi procede a tastoni tipico della ricerca, con la riflessività (esercizio critico del ricercatore su di sé, lo sforzo di oggettivazione della propria soggettività) come esigenza della ricerca. La monografia è il genere per eccellenza dell’antropologia classica (1920 – 1975); dopo, va più di moda il saggio, in quanto punto di vista argomentato su un tema. Piano piano, emergeranno nuove scritture che lasceranno più spazio al dialogo tra autore e soggetti e tra autore e lettori: diventerà una scienza multidisciplinare, aggiungendo alla propria prospettiva quella di altre scienze umane e della letteratura, entrandone in dialogo. Oltre alla scrittura, altre tecniche, come cinema e video, offrono la possibilità di rendere atmosfere e ambienti, di dare parola, di interagire, di seguire lo svolgimento di un’azione, senza però considerarle come un mezzo trasparente che restituisce i fatti senza mediazione.

Superare le false alternative

Le scienze umane sono soggette a un perpetuo riesame delle loro ipotesi, dei loro concetti e metodi, della loro scrittura: le contrapposizioni troppo semplici sono un freno notevole all’elaborazione di ipotesi. La sociologia e l’antropologia si sono costruite contro le intuizioni soggettive, adottando un metodo olistico e ricercano le relazioni che stanno alla base del sistema. Da una ventina di anni, l’olismo ha ceduto il passo a un individualismo metodologico, che parte dall’attore singolo per cercare di capire perché agisca in un certo modo. In quest’ottica, società e istituzione sono il risultato delle interazioni sociali, le norme sono l’esito e non la causa delle interazioni. Una delle difficoltà è capire se esiste una struttura prescrittiva preliminare che fissa le norme di comportamento, o se invece la struttura è prodotta dal gioco delle pratiche: l’individuo è prodotto dalla società, ma solo gli individui possono produrre la società. Non si può quindi contrapporre individuo e società, dal momento che l’individuo non può pensarsi solo e il collettivo si incarna inevitabilmente in lui. Si valorizza più il dubbio della certezza, il particolare più del generale. I critici constatano il carattere caotico del mondo e l’implosione delle grandi narrazioni, senza per questo pensare che tutto è finzione. Nella fiction, l’autore manifesta la propria intenzione di inventare in modo consapevole e deliberato, offrendo l’ingegnosità di una storia inventata, che può anche ispirarsi alla realtà, ma il referente è chiaramente immaginario, gli avvenimenti non si sono mai storicamente prodotti. I grandi evoluzionisti consideravano le società umane come altrettante tappe sul cammino di un progresso lineare, quasi che l’umanità intera avesse come fine la nascita della società occidentale, assolutamente sbagliato, ma non è opera di finzione; come sbagliavano i diffusionisti, quando non si curavano dell’affidabilità delle fonti; o i funzionalisti, visto che le società non funzionano come una macchina; o gli strutturalisti, che postulavano una relazione fissa tra significante e significato.
L’analisi antropologica è forzatamente strutturale e comparativa, con una portata più generale rispetto allo specifico rilievo dei casi singoli: sono sempre certi a priori ontologici che contrappongono rappresentazioni e pratiche, senso e funzione. I sistemi simbolici sono efficaci solo nella misure in cui significano e insieme funzionano: per agire sul mondo, bisogna dargli un senso, analizzando al contempo l’attivazione delle logiche sociali e della loro struttura. Non si può però prescindere dal fatto che l’antropologia ha come fine ultimo la spiegazione della variabilità dei fatti umani, comprendente per forza anche quello delle somiglianze e degli universali: senza generalizzazione e confronto, non avrebbe grande interesse.
Ogni argomentazione è soggetta a un dibattito tra specialisti, fondato su una lettura molto attenta dei testi e sul confronto, permettendo la valutazione dell’opera. Si possono considerare i materiali di una ricerca più come artefatti prodotti dal ricercatore che come dati, ma qualcosa della realtà esterna comunque resiste alle specificità dell’inchiesta. Il fatto che non sia possibile accedere alla realtà se non attraverso il prisma di una particolare cultura, non fa sparire né la realtà né la portata universale delle scoperte. Olismo e individualismo non si contrappongono come il vero e il falso, sono scelte metodologiche che hanno vantaggi e svantaggi, come pure procedimento induttivo e deduttivo, che vengono usati continuamente entrambi. Le popolazioni del mondo intero sono governate da meccanismi globali che sfuggono al loro controllo e la cui istanza strutturante è in ogni caso il capitalismo mondiale. Tutto il mondo è preso nelle reti, nei mercati, mentre la maggior parte di noi si ritiene priva di presa su un sistema mondiale in rapida trasformazione: per questo delle persone si raggruppano, adattando la propria cultura alle sfide del momento e sfruttando creativamente il proprio passato. È con questo che l’antropologo deve fare i conti: non esiste cultura senza politica e senza rappresentazione, l’identità deve tanto al globale quanto al locale, alla sopravvivenza come al passato, allo Stato come alle radici.

Tre tappe sull’antropologia

L’antropologia è il frutto di uno sviluppo scientifico complesso che si è verificato in Occidente in tre tappe principali:
1. Filosofia greca e romana, che hanno dato le basi;
2. Età dei lumi e al suo sviluppo scientifico e filosofico;
3. Rivoluzione industriale.

La scrittura e la stampa, in quanto tecnica, introducono una trasformazione di grande portata che modifica a fondo gli atti della comunicazione.

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