L'antropologia del mondo contemporaneo
Marc Augè, Jean Paul Colleyn (2006) Ed. Elèuthera
Riassunto di Elisabetta Pintus – Università di Cagliari
Riassunto di Elisabetta Pintus – Università di Cagliari
Comprendere il mondo contemporaneo: etnologia ed antropologia
L’etnografia definiva inizialmente (tra fine del XIX e l’inizio XX secolo) la descrizione degli usi e dei costumi dei popoli "primitivi"; l’etnologia definiva le conoscenze enciclopediche che era possibile ricavarne, presentandosi quindi come ramo della sociologia dedicato allo studio delle società primitive; l’antropologia (senza attributi) era riservata allo studio dell’essere umano nei suoi aspetti somatici e biologici, studio dell’evoluzione biologica degli esseri umani e della loro evoluzione culturale nel corso della preistoria.
Negli anni ’50 Claude Lévi-Strauss introdusse l’uso anglosassone del termine "antropologia" in quanto studio degli esseri umani in tutti i loro aspetti, detronizzando (ma non eliminando) il termine "etnologia": il successo dello strutturalismo ha fatto sì che parlando di antropologia si intenda la disciplina che si occupa della diversità contemporanea delle culture umane, accezione che presenta il vantaggio di una maggiore obiettività, scartando l’idea di un campo chiuso costituito dalle società primitive che non hanno possibilità di trasformandosi. L’abbandono del punto di vista etnocentrico (che voleva dire classificazione di razze/etnie/società con criteri che consacravano la superiorità dell’occidente) ha permesso di riabilitare il termine "etnologia", allargandola al mondo moderno, concependola come lo studio teorico fondato su una scala limitata, sull’immersione prolungata del ricercatore nel campo, sull’osservazione partecipante e sul dialogo con gli informatori.
L’antropologia come scienza dell’uomo comprende l’antropologia fisica e l’antropologia culturale e sociale, che si interessa di tutti i gruppi umani, quali che ne siano le caratteristiche, e può prendere come oggetto di studio tutti i fenomeni sociali che richiedono una spiegazione per mezzo di fattori culturali.
Le sfide dell’antropologia
A differenza della maggior parte degli animali, l’essere umano non è legato a un ambiente specifico: a lui si offre l’intero pianeta e grazie alla sua cultura egli si sa adattare in territori diversi. Le sue determinazioni biologiche lo rendono capace di vari comportamenti, che gli permettono di svilupparsi non solo in un ambiente naturale, ma anche in uno specifico ambiente sociale e culturale: la condizione umana non è pensabile se non in termini di organizzazione sociale, l’essere umana si pensa soltanto al plurale, non si pensa singolo e solo. Ogni pensiero dell’uomo è sociale, e quindi ogni antropologia è anche sociologia. Apprendere routine e abitudini dispensano gli uomini dalla necessità di riflettere e prendere decisioni in ogni momento: gran parte dei nostri comportamenti sfuggono alla rappresentazione cosciente, pur obbedendo a delle regole e seguendo un modo adeguato di comportarsi in società, con un senso incorporato e non rappresentato; questi automatismi liberano gli esseri umani e li rendono capaci di innovare, anche se diventano fardelli nel momento in cui non si cambiano velocemente come richiesto dal contesto.
L’antropologia studia i rapporti intersoggettivi tra i nostri contemporanei, con rapporti d’identità e di alterità che sono in continua ricomposizione: vengono usati la lingua, la parentela, le alleanze matrimoniali, le gerarchie politiche e sociale, i miti, i riti, le rappresentazioni del corpo. L’oggetto specifico dell’antropologia è come sia concepita dagli uni e dagli altri la relazione tra gli uni e gli altri: è tale relazione che riveste un senso, che mette in luce rapporti di forza, è simbolizzata; è un interesse per lo studio della relazione con l’altro, così come si costruisce nel suo contesto sociale. La questione del senso, dei mezzi con cui gli esseri umani che abitano in uno spazio sociale si accordano sul modo di rappresentarlo e di agire al suo interno, è l’orizzonte del procedimento.
Il ricercatore deve mettere sempre in discussione i propri comportamenti a priori e mettersi nella posizione di chi apprende, posizione comunque obbligata in un ambiente poco familiare, cercando quindi di non appiccicare le proprie idee preconcette sulle proprie osservazioni ma mantenere sempre una certa distanza al fine di mettere tali osservazioni in prospettiva con informazioni rilevanti desunte da altri contesti. Il concetto di alterità non si colloca soltanto al centro del procedimento antropologico per il fatto che questo tratterebbe delle diversità, ma ne è lo strumento: un progetto di ricerca implica uno scarto tra osservatore e oggetto, evitando di produrre un certo esotismo selezionando indizi piccanti e non confondendo analista e oggetto. Questo perché le informazioni ormai viaggiano a velocità elettronica da un estremo all’altro del pianeta, e ciò porta a mettersi a confronto con l’immagine del mondo. La concezione della persona umana e le relazioni tra questa e l’ambiente non restano inalterate, considerando le applicazioni come agricoltura chimica, antibiotici, OGM, ricerche del DNA, clonazione… Ormai quasi ovunque ci si interessa delle differenze di linguaggio, usi e costumi, con una sempre maggiore consapevolezza della loro interdipendenza, delle differenze e della trasformazione del mondo.
L’antropologia così prodotta non ha come fine la conoscenza, ma la costruzione di un’identità, l’espressione di una strategia politica: il processo di globalizzazione cammina insieme alle rivendicazioni politiche che vogliono riaffermare culture e tradizioni etniche.
Le categorie del senso comune sono attualmente veicolate dalla stampa che prende a prestito le modalità di linguaggio politiche, artistiche, sociali e scientifiche, portando a espressioni inesatte (non ci sono mondi come tali, ma sono in stretta relazione tra di loro) ma intuitivamente giuste (rimanda i riflessi cangianti dei mondi costruiti nello specchio di un’umanità compresente a se stessa). Non esiste più alcuna isola culturale, tutti gli spazi investiti e simbolizzati dall’uomo si analizzano in un contesto globalizzato. Quasi tutti i popoli della terra vedono le proprie condizioni di vita determinate da decisioni prese in luoghi lontani da loro e subiscono un dominio economico, politico e culturale esercitato da poteri e forze esterne; vivono concretamente le conseguenze di fenomeni demografici, biomedici, ecologici, economici e politici che a loro sfuggono ma che li avvicinano ad altri gruppi anch’essi vittime.
Il mondo contemporaneo
La contemporaneità è definita dal fatto di vivere nella stessa epoca e di condividere riferimenti comuni, anche se viaggiando tra le diverse culture si ha la sensazione di viaggiare anche nel tempo. Ma la cosa più importante è che bisogna scegliere con accortezza oggetto di ricerca e metodologia da adottare sul campo, senza però ridurre l’indagine alle relazioni interpersonali in situ, poiché queste trovano, al di là del punto di vista interno, un secondo livello di spiegazione nello studio delle determinazioni esterne (di ordine geografico, demografico, economico, storico, politico, istituzionale…). La base è la descrizione minuziosa dei comportamenti umani nel loro contesto storico e culturale e il confronto con altre forme nel tempo e nello spazio, prospettando, attraverso il confronto tra modelli, norme, schemi culturali e orizzonti di pensiero, una condizione umana in costante ridefinizione.
L’antropologia dei mondi contemporanei riconosce la pluralità delle culture e i loro riferimenti comuni e le differenze interne alla singola cultura, non più pensato come un sapere condiviso al cento per cento, a come una pluralità di forme, nella quale il bagaglio culturale dei suoi membri varia a seconda della posizione sociale. Il concetto di acculturazione indica l’insieme dei fenomeni prodotti dallo scontro tra due culture differenti, ma presuppone che all’inizio esistano due insiemi puri e omogenei; problema non risolto dal concetto di ibridazione: i termini troppo generali o troppo globali sono scarsamente utili. L’adozione di una prospettiva sistemica non impedisce di tenere conto della variabilità e del cambiamento e del punto di vista degli attori: di queste prospettive diverse ha bisogno l’antropologia.
L’antropologo costruisce il proprio oggetto di studio, sceglie un tema legato a forme di vita collettive, va sul campo per effettuare l’indagine, deve leggere la letteratura dedicata a quell’oggetto di ricerca (deve sapere come sono stati definiti storicamente i concetti e le problematiche che utilizza), intraprende la scrittura dei risultati: sono queste le 4 fasi del suo lavoro.
Dall’etnografia di emergenza all’antropologia generale
Nel periodo classico, l’antropologia si occupava dello studio di piccole società esotiche, tenendo conto del loro contesto immediato; portava il segno dell’etnografia di emergenza o di salvataggio, che aveva come scopo prioritario la descrizione di società sul punto di scomparire davanti all’espansione della civiltà europea: oggi il contesto si estende al pianeta intero, ormai le genti sono locali solo in funzione di una specifica configurazione storica. La descrizione etnografica, combinata ad altri metodi, appare una tappa necessaria per qualsiasi studio serio dei fenomeni nuovi che risultano dalle complesse relazioni tra contesti di dominio e minoranze o movimenti politico-culturali. L’antropologia passa progressivamente dallo studio dei popoli a quello dei temi.
La diversificazione degli ambiti di studio
La diversità degli argomenti porta a una specializzazione crescete, che porta a una proliferazione di attributi, che nascono spesso per comodità istituzionale, ma sono sancite dall’uso. Questi ambiti sono oggetti empirici differenti e non sottodiscipline, che rischierebbero di condannare l’analisi a una forma di chirurgia selvaggia, mentre sono tutti interdipendenti. Per questo anziché dire antropologia dell’infanzia, dell’educazione, della guerra, dell’arte ecc, si preferisce dire antropologia giuridica, religiosa, medica, urbana: questo permette di conservare l’idea di una prospettiva antropologica unitaria, conservando l’umanità nel suo insieme come proprio campo visivo. Anche se è importante specializzarsi, bisogna conservare la visione generale e contrastare la ghettizzazione dei saperi.
L’antropologo mira a raggiungere una verità di cui sono portatrici le persone che interroga, trasformandosi in un indigeno per capire i progressi e i limiti.
C’è l’abitudine di formare termini composti con il prefisso "etno", che fanno pensare che il campo, l’atteggiamento e l’attività debbano tenere conto dei fattori culturali. Si parla di etnoscienze, intese o come rami dell’etnologia, o come saperi di altri popoli in un campo particolare o come studio comparativo di un campo in funzione dei gruppi culturali, il termine etnostoria indica un ramo della storia che si occupa delle società senza scrittura, dove non è applicabile la storiografia classica; l’etnobotanica si dedica sia allo studio delle piante usate dai popoli sia alla teoria indigena delle piante; l’etnomedicina è lo studio delle altre medicina e lo studio delle teorie degli altri riguardo alla medicina (cosa che vale sia per la storia, psichiatria, musicologia…). Sarebbe meglio però parlare di prospettiva di ricerca che non di campo disciplinare. Le etnoscienze assumono un’ulteriore accezione con cui si indica l’analisi delle classificazioni e dei processi attivati dalle diverse culture nei campo del sapere e delle sue applicazioni, abbracciando parzialmente l’insieme delle ricerche dell’antropologia cognitiva. Esso tenta di rispondere con il ricorso a metodi rigorosi alla questione di sapere come si costruisca, localmente, il mondo naturale. Caso a parte l’etnometodologia, tendenza della sociologia americana che applica i metodi dell’etnologia all’osservazione e all’analisi della vita quotidiana: qualsiasi gruppo sociale è in grado di comprendersi, commentarsi, analizzarsi, e gli etnometodi sono le procedure che i membri di una società usano per produrre il proprio mondo, riconoscerlo e renderlo familiare.
Studio delle società: la parentela
La parentela e le regole di alleanza matrimoniale sono al cuore dello studio delle società ristrette, dove solo questo studio permette di capire qualcosa dei rapporti sociali. Dovunque nel mondo le relazioni tra gli esseri umani restano in gran parte codificate dalle strutture di parentela (legami di filiazione, di germanità e di alleanza), codificazioni di natura storia, è evidentemente sociale e non biologica.
Il primo teorico della parentela fu l’americano Lewis Henry Morgan, che osservò, presso gli Irochesi, come utilizzassero lo stesso termine per indicare un parente e individui che non facevano parte dell’albero genealogico, e propose il concetto di parentela classificatoria: per organizzare la propria vita sociale, le diverse società hanno imposto un ordine al dato biologico, ed è per questo che bisogna studiare caso per caso la terminologia di parentela, le regole di discendenza, di matrimonio e di residenza. Alcuni pensano che non si possa separare la parentela da altre sfere della vita sociale, come ad esempio quella economica e giuridica.
Molto importante è la terminologia di parentela: comportano sia i principi di filiazione sia quelli di alleanza. Tutte le società sono principalmente endogamiche, ma con un principio esogamico, cioè evitare di sposarsi con parenti prossimi, senza però nessuna legge naturale: quindi interviene la cultura e sancire il limite. Tra i sistemi d scambio matrimoniale si distinguono quelli elementari (prescrivono o consigliano una forma precisa di matrimonio, ed è la nascita che indica la scelta del coniuge), quelli semicomplessi (il meccanismo delle proibizioni restringe la scelta dei possibili coniugi, precisando con quale gruppo sia possibile sposarsi) e quelli complessi (libertà di scelta, limitata solo da determinismi di natura sociale). Sono in genere sistemi complessi quelli che obbligano chi prende moglie a pagare un compenso matrimoniale.
Può sembrare che la filiazione abbia un fondamento biologico, ma è anch’essa codificata dalla cultura. Esiste un legame di filiazione tra due individui quando l’uno e l’altro discendono da una stessa persona, determinando così il gruppo al quale appartiene un individuo. È il principio che precisa la trasmissione della parentela, assegna a ciascuno uno status, definisce i gruppi sociali funzionali: indicano i gruppi sociali definiti dalla parentela che si innestano gli uni negli altri. Il lignaggio riunisce le persone che si considerano discendenti di un comune antenato e che possono ricostruire la propria genealogia partendo da quell’antenato: si parla di patrilignaggio e di filiazione patrilineare se la parentela è trasmessa dagli uomini, altrimenti matrilignaggio e filiazione matrilineare. I gruppi concreti sono strutturati secondo un riferimento di lignaggio, ma presentano anche membri di altri lignaggi, come sposi e spose, parlando quindi di gruppi di lignaggio, che possono dividersi in segmenti per limitazioni materiali o sociali, ma a volte continuano a intrattenere relazioni, altre volte rimane solo un vago sentimento di filiazione e ogni segmento diventa un lignaggio a sé.
Il clan è un gruppo i cui membri si considerano discendenti di un antenato comune leggendario o mitico, senza ricostruire una genealogia precisa. Ogni clan riunisce un certo numero di lignaggi apparentati, parlando di patriclan / clan paterno o di matriclan / clan materno. In certe società l’appartenere a un clan determina tutta la vita sociale, in altri casi possono avere meno impatto sulla vita quotidiana. Nei sistemi bilineari l’individuo è legato a certi gruppi in ragione della sua discendenza maschile e ad altri in ragione della sua discendenza femminile; in un regime di filiazione indifferenziata (o cognatica) si tiene conto di tutt’e due le discendenze: ognuno fa quindi parte di gruppi parentali che si sovrappongono, e diventa impossibile costituire gruppi permanenti, a meno di tenere conto solo di certi antenati
Studio delle società: economia, ambiente, ecologia
In società non così integrate nell’economia di mercato come in occidente, era impossibile applicare la scienza economica: in ogni luogo dove l’economia non era un settore autonomo, era difficile parlare di allocazione delle risorse, di profitto, di domanda e offerta, di compravendita… Dopo la scoperta di cerimonie spettacolari che davano luogo a distribuzione e distruzione massiccia di beni, svaniva l’idea del selvaggio che cercava solo di sopravvivere: dà luogo alla teoria dello scambio e del dono. Ci si era accorti che in certe società lo scambio non aveva sempre finalità economiche, e perciò non lo si poteva studiare se non tenendo conto del contesto: alcune avevano lo scopo di attestare pubblicamente lo status dei gruppi presenti, avevano l’effetto di neutralizzare il surplus sul piano economico, era una modalità di esercizio del potere.
Le analisi degli scambi cerimoniali lasciavano in ombra sfere meno prestigiose di produzione e scambio, ma ci si rese conto che nella maggior parte delle società che non sono governate in prevalenza dall’economia di mercato, non esiste alcun termine che designi l’economia come settore autonomo. Gli studi sulle relazioni tra gli uomini e il loro ambiente erano all’inizio di tipo determinista: le diverse società o culture dovevano le loro caratteristiche all’ambiente in cui si erano sviluppate; l’andamento culturale seguiva la stessa logica di quello biologico darwiniano. Ben presto però è venuto alla luce il fatto che le differenze di organizzazione sociale e le caratteristiche culturali non si potevano spiegare solo in base alle limitazioni date dall’ambiente, visto che molte società sullo stesso territorio avevano forti differenze, mentre società su territori diversi avevano forti analogie. Negli anni ’50 tornò in voga il vecchio pensiero, sotto il nome di "ecologia culturale" e poi di "materialismo culturale": tutti i tratti culturali (dalla tecnologia ai riti, passando per l’habitat e i sistemi di parentela) corrispondono a scelte razionali in funzione delle esigenze locali di adattamento. Pur avendo constatato che non sempre era così, alcuni studiosi utilizzarono il termine "ecosistema" per indicare l’insieme delle relazioni di scambio materiale in un ambiente dato: questo modello ha il merito di riconoscere che, se l’ambiente incide sulla vita collettiva degli esseri umani, anch’essi incidono sull’ambiente, ma mette in secondo piano il concetto di cultura, non più studiato per sé ma in relazione a come vengono portati a termine gli scambi. Secondo altri ricercatori favorevoli all’etnologia si dovrebbe mettere l’accento sul bisogno di comprendere le motivazioni che spingono gli attori a prendere certe decisioni.
Da queste discussioni emerge il fatto che le configurazioni locali sono molto più complesse di quanto non si pensasse. Molto interessante è l’analisi dei diversi tipi di mediazione che i gruppi umani operano con il non-umano: porta alla nascita delle etnoscienze, che studia i procedimenti scientifici così come sono appresi dalle diverse culture. Nelle sue espressioni più avanzate l’antropologia cognitiva si avvicina alla psicologia: tenta di avvicinare i propri criteri di scientificità a quelli delle scienze sperimentali, ma si scontra con le difficoltà della raccolta di informazioni sul campo, che non è mai pura, ma dipende dalle ipotesi e dai fulcri di interesse del ricercatore; procede in senso contrario rispetto al metodo strutturalista, con le sue classificazioni, ragionamenti, meccanismi mnemonici, rappresentazioni attinenti a tutte le branche del sapere. Il metodo strutturalista invece parte da un corpus diversificato di produzioni sociali per ridurli ad alcune strutture fondamentali che definiscono gli spazi mentali del pensiero; il metodo cognitivo parte dai meccanismi mentali attivati dall’individuo per pensare e agire in modo idoneo in quanto membro di una società, metodo che è vicino alle ricerche di psicologia sperimentale, di linguistica, logica e neurologia: si assiste a un riavvicinamento delle scienze naturali alle scienze sociali, dal momento che la cultura fa parte della natura.
L’antropologia del politico
Si presenta come un mezzo per prendere le misure d’insieme del campo dell’antropologia: occupa perciò un posto a parte, in quanto la variabilità delle forme di organizzazione politica è servita da criterio tipologico per identificare le formazioni sociali. Parte dal tentativo di spiegare la genesi dello Stato: la nascita di un potere centrale autonomo non risulta mai provocata da una causa unica e universale, ma può essere associata alla conquista, allo sfruttamento economico di una classe sociale su un’altra, all’esistenza di un surplus, al controllo degli armamenti, alla necessità di organizzare la produzione. In molte società non è possibile configurare il livello politico senza passare attraverso lo studio del fatto religioso: alcune società possono essere governate senza che una classe dirigente eserciti, attraverso un governo centrale, una vera e propria sovranità su un’unità territoriale ben definita, poiché politico non può essere ridotto a potere. Il potere può esprimersi attraverso una serie di prestazioni reciproche tra il capo e i membri del gruppo.
In certe società studiate può esistere uno stretto intreccio tra Stato e parentela, possono rivestire una funzione importante anche gli scambi matrimoniali, allargando la rete di alleanze. Le società sprovviste di istituzioni centralizzate e dove le relazioni tra gruppi di lignaggio non sono regolate da una specifica autorità sono definite società segmentarie, dove l’importanza delle unità politiche in gioco dipende dalla fusione o dalla contrapposizione dei segmenti di lignaggio in rapporto tra di loro; in altre società i gruppi di parentela sono controbilanciati da classi di età, da gruppi gerarchizzati di individui che attraversano insieme i riti di iniziazione socio-religiosi. D’altronde, i dispositivi del potere passano spesso attraverso i riti e le rappresentazioni cosmologiche. L’istituzione reale presenta spesso una dimensione sacra: il re si trova alla congiunzione del mondo divino con quello sociale e la sua funzione è indispensabile per la perpetuazione dei ritmi cosmici e per la celebrazione delle grandi cerimonie annuali, con un potere tanto più legittimo quanto più appare inserito nell’ordine naturale e deve la propria efficacia all’ignoranza dei meccanismi che lo fondano. L’ordine che ne deriva può essere più o meno esplicito e non comporta l’emissione di norme giuridiche, se no quando la loro violazione dà luogo a una sanzione inflitta da una o più persone qualificate a farlo.
Per questo il problema della genesi dello Stato ha lasciato il posto allo studio della diversità dei modi di esercizio del potere, dei meccanismi di dominio, delle forme di funzionamento dello Stato. L’antropologia del politico si interessa anche delle diverse modalità che danno luogo alla territorialità, delle stratificazioni sociali, dello status e dei ruoli, dell’esercizio legittimo della forza, del conflitto, delle relazioni tra legge, diritto di appropriazione e politica, dove non basta studiare le regole, ma bisogna tenere conto delle pratiche che ci sono quando le si osserva in situazioni specifiche. Per questo si fa una distinzione tra potere e autorità, che implica una certa legittimità rispetto al potere.
A partire dagli anni ’70, sull’onda dei filosofi post-strutturalisti, si discute delle relazioni di potere: il potere di certi capi locali, sotto il colonialismo, poteva essere cresciuto o diminuito, ma in ogni caso era cambiato.
La violenza è uno dei temi più rilevanti: il corpo diventa uno strumento al servizio di una causa (come per i terroristi), lo sciopero della fame, l’attentato suicida… La radicalizzazione delle posizioni in campi opposti determina il coinvolgimento fisico, il passaggio all’atto e l’esplosione di violenza, da cui trae linfa anche la propaganda politica, fino a sfociare in un programma di sterminio. La guerra si presenta come un termine troppo inglobante, con diverse forme: guerra istituzionalizzata, convenzionale, iniziatica, economica, civile o militare, consuetudinaria, modo di produzione; ogni guerra, comunque, vede contrapposte unità politiche localizzate. Prima ci si basava su teorie rigidamente etniche, poi ci si è concentrati sul carattere storico del diritto coloniale, dei gruppi etnici e del carattere dinamico del politico: l’etnia non può essere paragonata a una specie naturale che sopravvive o si estingue, ma va analizzata come un fenomeno storico, come un processo, dove sono importanti anche il conflitto e la contraddizione.
Ora ci si sta concentrando su clientelismo, ereditarietà delle funzioni, legami tra poteri locali e Stato. Il multiculturalismo è un fenomeno complesso, nel quale è necessario distinguere tra l’affermazione di differenze irriducibili e il principio di una società più aperta: l’immigrazione porta a una specie di etnicizzazione dei diversi gruppi migranti, che si spiega come un indebolimento della forza di attrazione che spinge all’assimilazione e all’integrazione. La politica è anche l’arte di amministrare e produrre soggetti, cittadini.
L’antropologia del politico trova in certi casi difficoltà a conservare un atteggiamento descrittivo o esplicativo libero da qualsiasi dimensione normativa, con l’invito a entrare come consulenti al servizio di istituzioni in continua ricomposizione.
L’antropologia della religione
Si inserisce in una tradizione materialista, svincolata da interpretazioni teologiche, segnata per molto tempo dalle religioni del Libro: per gli occidentali è difficile staccarsi dall’idea di una religione monoteista, legata a un testo, esclusiva, cui si accede grazie a una conversione. Ovunque l’uomo ha cercato di raggiungere le verità nascoste che stanno al di là della percezione normale, formulando ipotesi sulle energie che reggono il mondo e cercando di rendere visibile l’invisibile, utilizzando concetti come energia, forza, volontà, anima, slancio vitale, soffio vitale, estranei ai pensatori occidentali, non avendo il monopolio della metafisica, intesa sia come ricerca delle cause nascoste al di là della percezione immediata sia come speculazione sistematica.
I concetti di fede e di credenza sono tanto più difficili da gestire quanto più la religione sembra coestensiva alla cultura nel suo insieme. Una buona parte della religione è costituita da pratiche meccaniche e da tecniche, da protocolli per cerimonie, sacrifici e preghiere: fino agli anni ’60, le rappresentazioni e le pratiche religiose servivano sia alla coesione sociale e alla struttura del potere sia a rispecchiare una visione del mondo naturale e sociale. Una credenza religiosa (secondo Durkheim) è sempre vera quando svolge una funzione sociale, i riti esprimono e rafforzano la solidarietà di gruppo, di modo che il culto è in realtà dedicato al gruppo stesso. La divisione tra sacro e profano, però, dal momento che la società non è omogenea, solleva discussioni, dal momento che non si trova un punto d’accordo per la definizione di sacro.
Oggi la religione viene messa in relazione al processo di legittimazione dell’autorità, alle espressioni di risentimento dei dominati, agli interessi di classe e alle strategie dei singoli, il rito si presenta come un prolungamento della lotta politica, o come vettori di informazione o come espressioni di una visione del mondo.
Tutti i popoli classificano in varie categorie le specie, gli elementi, le sostanze della natura e i fenomeni climatici: secondo Sapir e Whorf, esiste una relazione necessaria tra le categorie e la struttura del linguaggio e il modo in cui gli esseri umani apprendono il mondo.
Se per un verso il rito non si confina nella sfera religiosa, non esiste religione senza rito, a cominciare dai riti di passaggio, che passano attraverso fasi precise scandendo il ciclo dell’esistenza degli individui e strutturando la società, passano attraverso iscrizioni irreversibili sul corpo, e si considera spesso il funerale come l’ultima fase del rito di passaggio. In ogni caso è necessario dare un senso di finitezza del corpo individuale, mentre il corpo sociale sopravvive, con una forte influenza di Freud su questo tema, nella scuola americana della cultura e personalità per esempio. L’interesse di queste ricerche consiste nello sforzo di articolare il livello individuale e quello collettivo, superando l’idea di una causalità a livello del singolo: se pure la religione spesso risponde ai bisogni dell’individuo, non è per soddisfare questi bisogni che i membri di una data società sono religiosi; a ciò si aggiunge la scoperta che in molte culture l’individuo è considerato una riunione effimera di elementi diversi, che in parte esistevano prima della sua nascita e in parte sopravvivranno alla sua morte, che ha messo in crisi la strutturazione delle istanze della personalità così come proponeva Freud. I dispositivi rituali funzionano come mediazioni necessarie all’azione di uomini su altri uomini, che operano dietro ai rapporti degli esseri umani con la natura e con gli dei; i destinatari proclamati dei riti possono essere dei, geni o antenati, ma non sono altro che mediatori di una relazione tra umani, con una relazione simbolica, attingendo dai campi religioso, sociale, psicologico e estetico.
Difficoltà anche con il lessico: i termini si dimostrano troppo rigidi quando contribuiscono a cristallizzare gli oggetti che cercano di definire; altri sono troppo polisemici, imponendo di volta in volta la messa a punto, come con "riti" e "rituali", per non parlare del termine "religione" come se fosse una dottrina ben definita, separandola da magia e stregoneria, con i quali è invece strettamente collegata. Le critiche sono state sferrate dallo strutturalismo, che ha richiamato l’attenzione sul lavoro di costruzione simbolica e sulle categorie della comprensione, e dall’ermeneutica, che ha tentato di esprimere la realtà sociale dall’interno, rendendo più problematico il processo di scrittura e l’inchiesta sul campo. L’antropologia cognitiva invece cerca di sottrarre lo studio della religione alle speculazioni e agli a priori concettuali, concentrandosi sui principi che spiegano la genesi delle credenze, utilizzando solo informazioni elaborate con metodi controllati.
Altro problema è l’autonomizzazione del campo religioso, poiché è inserito nel campo delle modalità di pensiero: il concetto di sovrannaturale non è universale, ma si è imposto nella civiltà occidentale insieme a quello di scienze naturali. Si contrappone il campo della natura, osservabile scientificamente, a quello dell’immaginario, dei miti e delle superstizioni, alla parte irrazionale.
L’antropologia della performance
Alla fine degli anni ’70 si passa da una scienza dei fatti, delle norme, delle strutture, a una scienza dei processi: le etnie non sono più entità chiuse e compiute, ma produzioni storiche in divenire. In tutte le maniere di usare il corpo umano dominano i fatti dell’educazione; il concetto di habitus mira a rendere conto dell’acquisito, che si incarna nei corpi e nelle menti sotto forma di disposizioni durevoli, che si possono osservare nelle posture, nei gesti, nelle mimiche, nell’espressione dei sentimenti. Gran parte della vita sociale e dei processi cognitivi non passa dal linguaggio ed è difficile esprimerla verbalmente: per questo si ricorre alla fotografia e alle registrazioni audiovisive, che mettono in luce aspetti importanti che non sono costitutivi sul piano del linguaggio.
La società è permeata di teatralità: ed è per questo che nasce il campo interdisciplinare chiamato performance studies, campo che comprende teatro, musica, danza, riti, preghiere, sacrifici, tradizioni orali, carnevali. L’evento è destinato a produrre effetti sul pubblico, che ne è spesso partecipe; la comunicazione con un altro mondo passa soprattutto da messe in scena suggestive che avvicinano il rito all’arte, con una loro dimensione estetica: qualsiasi religione ha bisogno di bellezza, regia, spettacolo, poiché nel rito sono in gioco aspetti profondi della coscienza umana, il rapporto con l’universo, il ciclo della vita e della morte, il mistero della procreazione… La traduzione di performance con spettacolo gli fa perdere la dimensione performativa, secondo la quale l’oggetto e la sua creazione si confondono, producendosi simultaneamente: anche gli spettacoli rituali sono performances, vanno al di là di se stessi, si mettono in gioco, fanno parte delle pratiche con cui una cultura si crea e si trasforma.
Cinema etnografico e antropologia visuale
Dopo l’invenzione del cinema, è stato subito messo al servizio dell’uomo e dell’osservazione dei suoi comportamenti, ma oggi il documentario vive all’ombra del grande cinema. In ogni caso, l’invenzione progressiva di apparecchiature sempre più leggere ha reso più facile il lavoro dell’etnologo, che può filmare le situazioni sociali che osserva.
La definizione di cinema etnografico è un po’fuorviante perché raccoglie al suo interno film di esploratori, viaggiatori, registi indipendenti, reporter televisivi: il paradigma esotico è il denominatore comune; sono comunque il più delle volte deludenti, alla continua ricerca di un positivismo e con la diffidenza verso gli artifici del cinema professionale. I filmati erano proposti come se rappresentassero fedelmente una realtà univoca, come se si potesse restituire il reale in modo perfettamente mimetico, indipendentemente dallo sguardo che si poggia su di esso: furono cineasti come Flaherty e Vigo, con uno sguardo più artistico e sociale che scientifico, con una conoscenza dell’arte di proporre un punto di vista, a cambiare il panorama. Erano consapevoli del fatto che gli avvenimenti di natura storica, cioè non inventati dal regista e dagli attori, devono comunque essere raccontati e che il narratore fa parte del racconto. Si parla però sempre di film etnologico e non di film antropologico poiché, in quanto scienza che parla dell’uomo, ogni film è antropologico, come ogni film è sociologico.
L’antropologia visuale riunisce una triplice attività:
- inchiesta etnografica fondata sull’impiego di tecniche di registrazione audiovisiva;
- uso di queste tecniche come modalità di scrittura e di pubblicazione;
- studio dell’immagine in senso lato (arti grafiche, fotografie, film, video) quale oggetto di ricerca.
Per quanto riguarda la produzione di immagini come oggetti di studio, non si può più partire dal principio secondo il quale i membri di una società pensano e agiscono esclusivamente in funzione di riferimenti culturali etnici semplici e omogenei. L’individuo raccoglie nel corso della propria vita modelli e riferimenti complessi, venuti da orizzonti diversi, dai più locali e dai più radicati nel tempo a quelli più volatili.
Se decide di girare un film, l’antropologo deve dotarsi dei mezzi necessari, poiché il contenuto non può essere disgiunto dalla forma e il mestiere comporta una dimensione artistica. Gli effetti di conoscenza non sono veicolati solo dai contenuti, ma anche dai suoni, dalle immagini, dalle tecniche, dallo stile: deve curare la propria sintassi, ricerca l’espressione adeguata, lavorare sul ritmo, la narrazione, l’emozione. Realizzare un documentario è un’arte discorsiva che comporta centinaia di scelte, come selezionare nella realtà i particolari significativi e mixare il sonoro, con una propria retorica, individuando personaggi e situazioni interessanti. Il film e il video sono mezzi incomparabili per mostrare luoghi, spazi, testimonianze, prese di posizione, atteggiamenti, posture, frammenti di vita. Nonostante tutto ciò, rimane una realtà trattata con una prospettiva particolare (si concentra sul trattamento di un oggetto che è possibile apprendere in mille modi), ben lontana dall’opera di invenzione (la creazione riguarda l’intero oggetto filmico).
Negli ultimi anni abbiamo un’inversione di rotta: sono le stesse persone oggetto di film etnografici che producono le proprie immagini e documentano la propria vita sociale. Così facendo, possono controllare la propria immagine e inviare alla comunità internazionale i messaggi che desiderano.
L’antropologia applicata
Oggi si interviene sempre più come consulenti sui problemi della società, perché chi ha il potere decisionale ha bisogno di una scienza a breve per poter adeguare le proprie scelte nell’immediato. La teorizzazione dello sviluppo è passata attraverso fasi in cui prevalevano preoccupazioni economiche, poi politiche, poi antropologiche, poi di nuovo economiche. A qualsiasi livello sia, nonostante i fallimenti, l’ideologia tecnocratica è potentissima: la razionalità è uno dei grandi miti dell’occidente, ma in materia di sviluppo economico sono tanti quelli che parlano di ragione, sapere, scienza, senza dare alcuna dimostrazione. La resistenza del reale sembra dimostrare che esistono troppi parametri in equilibrio instabile per poter proporre una prospettiva credibile, equilibri instabili accelerati anche dall’esigenza di progressi con efficacia a breve termine.
Etnografie e antropologia delle scienze
La storia e la filosofia sono discipline che esistono da molto tempo, al contrario di etnologia e antropologia che esistono da una ventina di anni, soprattutto sulla produzione scientifica e sulle sue applicazioni tecnologiche. È un campo di ricerca diversificato, fondamentale per la comprensione del nostro mondo in continuo sviluppo: studio della costruzione dell’autorità scientifica, critica delle modalità di esposizione retoriche della scienza, trasformazioni indotte dalle scoperte scientifiche, per citarne alcuni.
Dentro e fuori l’antropologia
È una disciplina di crocevia, ma gli scambi con le altre discipline sono reciproci: l’interesse di molti sociologi per l’antropologia e l’etnologia e per l’osservazione sul campo nasce negli anni ’50 dagli studiosi della scuola di Chicago, seguiti dall’università di San Diego. Non si uniscono, rimangono ben differenti: lo studio dettagliato delle configurazioni locali non si oppone alle logiche strutturali su scala più grande. Tra tutte le scienze umane, è la storia quella che si è ispirata di più ai metodi antropologici, tenendo conto dei fattori culturali. Questo interesse ha portato alla comparsa di nuovi oggetti di studio: teoria della persona, storia del corpo e delle pratiche corporali, della famiglia, del gusto… Lo studio dei sistemi di pensiero esotici ha gettato nuova luce sull’influenza esercitata dall’ideologia cristiana e sull’arte che ne deriva, sugli ideali, sul gestuale, sugli atteggiamenti. La periodizzazione si impone chiaramente come un tema comune all’antropologia e alla storia, come i concetti di mentalità, cultura, ideologia e immaginario.
È nata una nuova "nuova storiografia", che si fonda sull’analisi delle esperienze individuali, si interessa alla costruzione sociale dei ruoli sessuali, studia i problemi metodologici posti dalla biografia, con una prospettiva qualitativa molto vicina a quella antropologica. Non è possibile fare astrazione dalla storia. Il principio d’integrazione di una qualsiasi unità sociale non procede mai senza contraddizioni e tutte le pratiche sociali, tutti i modelli di comportamento, sono colti all’interno di un movimento continuo di trasformazione; sii hanno nuovi oggetti di studio (migrazioni, profughi, cosmopolitismo…), di chiara natura storica, legate alle scienze politiche. Si osserva anche, nella storiografia come nell’antropologia, un maggiore interesse per l’immagine nei suoi rapporti con il linguaggio. Non c’è dubbio, tra l’altro, che lo scritto abbia favorito l’esercizio del pensiero analitico e il controllo di vaste popolazioni attraverso una struttura amministrativa: l’avvento di sistemi d’istruzione basati sulla scrittura al posto delle immagini e del suono, ha trasformato le leggi della trasmissione culturale, con una rivincita però dell’oralità e del rito.
Sul campo: oggetto di ricerca in ambito antropologico
Il metodo su cui si basa l’antropologia è l’etnografia: è il lavoro sul campo dove il ricercatore partecipa alla vita quotidiana di una cultura differente, osserva, registra, tenta di accedere al punto di vista indigeno e scrive. I fondatori di questo metodo sono Boas (1886, tra gli indiani della costa occidentale degli USA) e Malinowski (1914, tra gli abitanti delle isole Trobriand, Nuova Guinea), aprendo una fase nuova della disciplina basata su monografie, descrizioni minuziose e il più complete possibili, con il loro recarsi di persona a condurre inchieste sul campo anziché speculare sui resoconti di esploratori, viaggiatori, militari e missionari. Hanno contribuito anche a creare l’immagine romantica dell’etnografo impegnato nella descrizione di strani costumi in posti lontani.
La parola campo indica insieme un luogo e un oggetto di ricerca, ed è un termine fondamentale in ambito antropologico. L’efficacia dell’inchiesta sta più nell’apprendimento spontaneo che nella ricerca consapevole e attiva: immergendosi in una cultura diversa dalla nostra, essa informa e forma molto più di quanto si sia consapevoli, grazie al cosiddetto sapere per familiarizzazione o per impregnazione, un sapere che affiora appena alla coscienza, ma che si traduce nella sensazione di conoscere lo scenario nel quale avvengono gli avvenimenti. L’esperienza permette di farci dire che cosa succederà e di non ignorare le regole implicite di una cultura, di non essere totalmente alla mercé della diversità dei fenomeni, ma di riuscire a distinguere l’informazione dai rumori circostanziali. La prova del campo impedisce di abbandonarsi a creazioni arbitrarie, di proiettare su una realtà sociale ciò che si desidera vedervi, di privilegiare i propri interessi soggettivi o quelli degli interlocutori, lottando tra due tendenze opposte: la prima è quella che lascia libero corso alla potenza organizzatrice delle proprie abitudini, banalizzando le impressioni che arrivano dall’esterno; la seconda è quella che spinge a definire la propria missione come una raccolta di differenza, che porterebbe a collocare qualsiasi informazione esterna al suo gruppo di origine sotto in segno di una intrinseca estraneità. In tutti i casi, dev’essere consapevole del fatto che raccogliere un’informazione non significa solo sintetizzare dati sensibili, ma anche modificarli, perché si crea una rappresentazione che prima non esisteva come tale; bisogna distinguere la regola come ipotesi teorica del ricercatore dalla regola come ipotesi teorica dei suoi interlocutori, considerando che la regola che governa realmente i comportamenti può essere distinta dalla prima e dalla seconda. Il lavoro di raccolta dati deve essere subordinato alla costruzione teorica del proprio oggetto di ricerca: la realtà non è data, ma costruita dal ricercatore; la nostra stessa percezione crea per difetto (seleziona le impressioni che corrispondono alle nostre idee) e per eccesso (può esagerare certi tratti). Per questo un ricercatore ben preparato si sforzerà di rimettere in discussione le proprie classificazioni, i propri montaggi della realtà, per essere certo di non creare egli stesso l’oggetto che vuole studiare. Questo esercizio di decostruzione ha faticato a imporsi contro gli a priori empiristi e positivisti: si deve lottare contro i propri automatismi per avere una base solida nelle descrizioni, moltiplicando i punti di vista senza pretendere di abbracciare la totalità dell’oggetto.
Sul campo, l’antropologo si vede proposti in continuazione temi e interessi che non coincidono con le categorie della propria cultura; l’informatore, inoltre, fornisce informazioni che sono inserite dall’antropologo in un insieme che egli ignora: se chi sa non dice tutto quello che sa, il sapere che cede gli è in un qualche modo rubato, fatto imputabile però anche a quello che viene imputato di conoscere l’ uno all’altro. Per questo l’antropologo deve mettersi in ascolto, creare uno spazio anche per gli interrogativi e i dubbi dell’informatore, considerandolo anche un interlocutore.
Se va condannato l’uso esclusivo del questionario, è esagerato però affermare che non serva a niente, perché questi sforzi pedagogici comunque portano a qualcosa, grazie alla capacità di spiegarsi. Per questo, all’inizio di un’inchiesta sarebbe meglio un lungo soggiorno sul campo per conoscere ad osmosi costumi, lingua e usanze, non trascurando gli aspetti non verbali dell’assimilazione dei codici sociali, e stringendo amicizia con gli individui del gruppo: è una condizione simile a quella di uno studente. Deve riflettere su se stesso: una dimensione critica, principio fondamentale dell’analisi transculturale. Negli anni ’70 si è assistito a un proliferare di opere consacrate all’inchiesta sul campo, mettendo in luce il carattere unico di un’esperienza dove l’osservatore è il proprio strumento di ricerca. Il ricercatore, nel corso del proprio soggiorno sul campo, è costretto a immergersi al di fuori della proiezione data dal conformismo verso un ordine particolare del mondo, assistendo a diversi tentativi compiuti dagli uomini per vivere il mondo e dargli un senso, partecipandovi e offrendone testimonianza. L’esperienza del campo provoca un disagio doppio ma salutare: quello materiale (dove capisce che non è scontata nessuna definizione a priori di una vita normale) e quello che lo costringe a lacerare la trama delle abitudini e di idee belle che gli sono servite da protezione. Si sente personalmente trasformato dall’esperienza.
Lo studio del contesto storico nella pratica antropologica ha messo in evidenza la dimensione politica del ruolo dell’antropologo in quanto erede del colonialismo. Lo stereotipo dell’antropologo come maestro è dovuto in gran parte alla scarsità di testi di riflessione che attestino l’impotenza dell’etnografo. Inoltre, quando si confronta con la differenza culturale, fa luce sui fondamenti delle concezioni specifiche della propria cultura. Oltre ai doni e alle retribuzioni, capita spesso che l’etnologo sia recuperato e utilizzato nelle strategie locali, venendogli così difficile rimanere neutrale: certi territori invitano e costringono l’antropologo a impegnarsi moralmente, socialmente, politicamente.
La concezione del campo come spazio di sperimentazione, come laboratorio o come riserva, è oggi contestata dai teorici della globalizzazione e della mobilità delle culture, con movimenti più rapidi di popolazione, con un lavoro sul campo con una forma reticolare per seguire il movimento: si studiano i campi profughi, le comunità virtuali, non andando quindi per forza in una terra incognita.
L'antropologo e la lettura
Antropologia e filosofia non possono fare a meno di confrontarsi e di utilizzarsi a vicenda: coloro che appartengono a una data società si capiscono e capiscono il proprio universo sociale, poiché attivano uno specifico sapere fondato su disposizioni acquisite, schemi di pensiero, esperienze, informazioni, che applicano alla propria situazione personale. I metodi impegnati quindi si collocano lungo la linea di convergenza dell’individuale e del collettivo: si deve tentare di comprendere tali metodi osservando comportamenti e analizzando discorsi, mettendo a confronto le proprie osservazioni con un sapere accumulato nella letteratura. Gli serve per gestire una certa tensione tra il dialogo che intrattiene sul campo con i suoi interlocutori e quello più astratto che mantiene con i suoi autori: dovrà evitare volta per volta di soffocare le esperienze sul campo con quello che già sa e di stimolare la curiosità grazie alla propria cultura antropologica. Questo differenzia il campo dal reportage.
Bisogna però evitare il neofunzionalismo, che tende a spiegare tutto come sintomo di un’epoca, poiché si rischia di incagliarsi in un determinismo integrale. Ogni ricercatore è collocato nella propria cultura, ma tenta di affrancarsene, impegnandosi in un dialogo con autori di altre epoche, discipline e luoghi. Ciò che si osserva da un punto di vista specifico non si spiega interamente con le condizioni storiche che rendono possibile tale prospettiva: certe verità resistono alla contestualizzazione radicale. I grandi pensatori indossano gli abiti della propria epoca, ma il loro pensiero è di ogni tempo, ma bisogna leggere prospettando una doppia lettura: prima quella del contesto culturale dell’epoca, e poi quella delle conoscenze acquisite da allora. Per un antropologo la lettura svolge una funzione fondamentale nell’apprendimento di una cultura professionale fatta di un insieme di conoscenze, di disposizioni etiche, di valori, di principi pratici.
L'antropologo e la scrittura
L’antropologo è un autore e deve interrogarsi sul linguaggio che impiega e sulla propria scrittura. Se c’è scienza, si basa su una costruzione teorica che a sua volta si fonda su dati, sempre mediati dal linguaggio: la lingua comune veicola tradizioni di pensiero che ne condizionano lo sguardo, la concezione del mondo e la raffigurazione della realtà. Sono stati creati molti neologismi per dare a certi termini un significato più tecnico che permettesse di essere meno vaghi. Prima del 1980, la scrittura tendeva all’imparzialità, alla neutralità, all’impersonalità, perché c’era ancora la logica di rottura con il soggettivismo. Ogni stile postula una teoria (concezione generale di ciò che si discute), una tradizione intellettuale (la letteratura) e un impegno etico (non giudicare ma capire). Oggi gli antropologi si sforzano di esporre i percorsi attraverso i quali sono stati indotti a pensare quello che pensano e tentano di rendere esplicito l’andirivieni tra teoria e campo. Non è più librarsi sull’esperienza degli attori, ma rendere le caratteristiche di situazione e di dialogo dell’etnografia. I testi lasciano più spazio a voci diverse da quelle del ricercatore: voci che escono dagli archivi, dagli interlocutori sul campo, dai filosofi, dai teorici della letteratura, dai narratori; c’è più attenzione alle interazioni sociali, all’antropologia della parola e degli altri fatti della comunicazione, anche perché l’enunciato è sempre relativo a un contesto soggetto a variabili e a incognite. Si cerca di diversificare le fonti, di evitare i portavoce d’ufficiali, di raccogliere il punto di vista femminile, di non ignorare i deboli e i dominati: le società semplici o ristrette non sono unanimi.
La forma del testo prende l’andamento di chi procede a tastoni tipico della ricerca, con la riflessività (esercizio critico del ricercatore su di sé, lo sforzo di oggettivazione della propria soggettività) come esigenza della ricerca. La monografia è il genere per eccellenza dell’antropologia classica (1920 – 1975); dopo, va più di moda il saggio, in quanto punto di vista argomentato su un tema. Piano piano, emergeranno nuove scritture che lasceranno più spazio al dialogo tra autore e soggetti e tra autore e lettori: diventerà una scienza multidisciplinare, aggiungendo alla propria prospettiva quella di altre scienze umane e della letteratura, entrandone in dialogo. Oltre alla scrittura, altre tecniche, come cinema e video, offrono la possibilità di rendere atmosfere e ambienti, di dare parola, di interagire, di seguire lo svolgimento di un’azione, senza però considerarle come un mezzo trasparente che restituisce i fatti senza mediazione.
Superare le false alternative
Le scienze umane sono soggette a un perpetuo riesame delle loro ipotesi, dei loro concetti e metodi, della loro scrittura: le contrapposizioni troppo semplici sono un freno notevole all’elaborazione di ipotesi. La sociologia e l’antropologia si sono costruite contro le intuizioni soggettive, adottando un metodo olistico e ricercano le relazioni che stanno alla base del sistema. Da una ventina di anni, l’olismo ha ceduto il passo a un individualismo metodologico, che parte dall’attore singolo per cercare di capire perché agisca in un certo modo. In quest’ottica, società e istituzione sono il risultato delle interazioni sociali, le norme sono l’esito e non la causa delle interazioni. Una delle difficoltà è capire se esiste una struttura prescrittiva preliminare che fissa le norme di comportamento, o se invece la struttura è prodotta dal gioco delle pratiche: l’individuo è prodotto dalla società, ma solo gli individui possono produrre la società. Non si può quindi contrapporre individuo e società, dal momento che l’individuo non può pensarsi solo e il collettivo si incarna inevitabilmente in lui. Si valorizza più il dubbio della certezza, il particolare più del generale. I critici constatano il carattere caotico del mondo e l’implosione delle grandi narrazioni, senza per questo pensare che tutto è finzione. Nella fiction, l’autore manifesta la propria intenzione di inventare in modo consapevole e deliberato, offrendo l’ingegnosità di una storia inventata, che può anche ispirarsi alla realtà, ma il referente è chiaramente immaginario, gli avvenimenti non si sono mai storicamente prodotti. I grandi evoluzionisti consideravano le società umane come altrettante tappe sul cammino di un progresso lineare, quasi che l’umanità intera avesse come fine la nascita della società occidentale, assolutamente sbagliato, ma non è opera di finzione; come sbagliavano i diffusionisti, quando non si curavano dell’affidabilità delle fonti; o i funzionalisti, visto che le società non funzionano come una macchina; o gli strutturalisti, che postulavano una relazione fissa tra significante e significato.
L’analisi antropologica è forzatamente strutturale e comparativa, con una portata più generale rispetto allo specifico rilievo dei casi singoli: sono sempre certi a priori ontologici che contrappongono rappresentazioni e pratiche, senso e funzione. I sistemi simbolici sono efficaci solo nella misure in cui significano e insieme funzionano: per agire sul mondo, bisogna dargli un senso, analizzando al contempo l’attivazione delle logiche sociali e della loro struttura. Non si può però prescindere dal fatto che l’antropologia ha come fine ultimo la spiegazione della variabilità dei fatti umani, comprendente per forza anche quello delle somiglianze e degli universali: senza generalizzazione e confronto, non avrebbe grande interesse.
Ogni argomentazione è soggetta a un dibattito tra specialisti, fondato su una lettura molto attenta dei testi e sul confronto, permettendo la valutazione dell’opera. Si possono considerare i materiali di una ricerca più come artefatti prodotti dal ricercatore che come dati, ma qualcosa della realtà esterna comunque resiste alle specificità dell’inchiesta. Il fatto che non sia possibile accedere alla realtà se non attraverso il prisma di una particolare cultura, non fa sparire né la realtà né la portata universale delle scoperte. Olismo e individualismo non si contrappongono come il vero e il falso, sono scelte metodologiche che hanno vantaggi e svantaggi, come pure procedimento induttivo e deduttivo, che vengono usati continuamente entrambi. Le popolazioni del mondo intero sono governate da meccanismi globali che sfuggono al loro controllo e la cui istanza strutturante è in ogni caso il capitalismo mondiale. Tutto il mondo è preso nelle reti, nei mercati, mentre la maggior parte di noi si ritiene priva di presa su un sistema mondiale in rapida trasformazione: per questo delle persone si raggruppano, adattando la propria cultura alle sfide del momento e sfruttando creativamente il proprio passato. È con questo che l’antropologo deve fare i conti: non esiste cultura senza politica e senza rappresentazione, l’identità deve tanto al globale quanto al locale, alla sopravvivenza come al passato, allo Stato come alle radici.
Tre tappe sull’antropologia
L’antropologia è il frutto di uno sviluppo scientifico complesso che si è verificato in Occidente in tre tappe principali:
1. Filosofia greca e romana, che hanno dato le basi;
2. Età dei lumi e al suo sviluppo scientifico e filosofico;
3. Rivoluzione industriale.
La scrittura e la stampa, in quanto tecnica, introducono una trasformazione di grande portata che modifica a fondo gli atti della comunicazione.
L’etnografia definiva inizialmente (tra fine del XIX e l’inizio XX secolo) la descrizione degli usi e dei costumi dei popoli "primitivi"; l’etnologia definiva le conoscenze enciclopediche che era possibile ricavarne, presentandosi quindi come ramo della sociologia dedicato allo studio delle società primitive; l’antropologia (senza attributi) era riservata allo studio dell’essere umano nei suoi aspetti somatici e biologici, studio dell’evoluzione biologica degli esseri umani e della loro evoluzione culturale nel corso della preistoria.
Negli anni ’50 Claude Lévi-Strauss introdusse l’uso anglosassone del termine "antropologia" in quanto studio degli esseri umani in tutti i loro aspetti, detronizzando (ma non eliminando) il termine "etnologia": il successo dello strutturalismo ha fatto sì che parlando di antropologia si intenda la disciplina che si occupa della diversità contemporanea delle culture umane, accezione che presenta il vantaggio di una maggiore obiettività, scartando l’idea di un campo chiuso costituito dalle società primitive che non hanno possibilità di trasformandosi. L’abbandono del punto di vista etnocentrico (che voleva dire classificazione di razze/etnie/società con criteri che consacravano la superiorità dell’occidente) ha permesso di riabilitare il termine "etnologia", allargandola al mondo moderno, concependola come lo studio teorico fondato su una scala limitata, sull’immersione prolungata del ricercatore nel campo, sull’osservazione partecipante e sul dialogo con gli informatori.
L’antropologia come scienza dell’uomo comprende l’antropologia fisica e l’antropologia culturale e sociale, che si interessa di tutti i gruppi umani, quali che ne siano le caratteristiche, e può prendere come oggetto di studio tutti i fenomeni sociali che richiedono una spiegazione per mezzo di fattori culturali.
Le sfide dell’antropologia
A differenza della maggior parte degli animali, l’essere umano non è legato a un ambiente specifico: a lui si offre l’intero pianeta e grazie alla sua cultura egli si sa adattare in territori diversi. Le sue determinazioni biologiche lo rendono capace di vari comportamenti, che gli permettono di svilupparsi non solo in un ambiente naturale, ma anche in uno specifico ambiente sociale e culturale: la condizione umana non è pensabile se non in termini di organizzazione sociale, l’essere umana si pensa soltanto al plurale, non si pensa singolo e solo. Ogni pensiero dell’uomo è sociale, e quindi ogni antropologia è anche sociologia. Apprendere routine e abitudini dispensano gli uomini dalla necessità di riflettere e prendere decisioni in ogni momento: gran parte dei nostri comportamenti sfuggono alla rappresentazione cosciente, pur obbedendo a delle regole e seguendo un modo adeguato di comportarsi in società, con un senso incorporato e non rappresentato; questi automatismi liberano gli esseri umani e li rendono capaci di innovare, anche se diventano fardelli nel momento in cui non si cambiano velocemente come richiesto dal contesto.
L’antropologia studia i rapporti intersoggettivi tra i nostri contemporanei, con rapporti d’identità e di alterità che sono in continua ricomposizione: vengono usati la lingua, la parentela, le alleanze matrimoniali, le gerarchie politiche e sociale, i miti, i riti, le rappresentazioni del corpo. L’oggetto specifico dell’antropologia è come sia concepita dagli uni e dagli altri la relazione tra gli uni e gli altri: è tale relazione che riveste un senso, che mette in luce rapporti di forza, è simbolizzata; è un interesse per lo studio della relazione con l’altro, così come si costruisce nel suo contesto sociale. La questione del senso, dei mezzi con cui gli esseri umani che abitano in uno spazio sociale si accordano sul modo di rappresentarlo e di agire al suo interno, è l’orizzonte del procedimento.
Il ricercatore deve mettere sempre in discussione i propri comportamenti a priori e mettersi nella posizione di chi apprende, posizione comunque obbligata in un ambiente poco familiare, cercando quindi di non appiccicare le proprie idee preconcette sulle proprie osservazioni ma mantenere sempre una certa distanza al fine di mettere tali osservazioni in prospettiva con informazioni rilevanti desunte da altri contesti. Il concetto di alterità non si colloca soltanto al centro del procedimento antropologico per il fatto che questo tratterebbe delle diversità, ma ne è lo strumento: un progetto di ricerca implica uno scarto tra osservatore e oggetto, evitando di produrre un certo esotismo selezionando indizi piccanti e non confondendo analista e oggetto. Questo perché le informazioni ormai viaggiano a velocità elettronica da un estremo all’altro del pianeta, e ciò porta a mettersi a confronto con l’immagine del mondo. La concezione della persona umana e le relazioni tra questa e l’ambiente non restano inalterate, considerando le applicazioni come agricoltura chimica, antibiotici, OGM, ricerche del DNA, clonazione… Ormai quasi ovunque ci si interessa delle differenze di linguaggio, usi e costumi, con una sempre maggiore consapevolezza della loro interdipendenza, delle differenze e della trasformazione del mondo.
L’antropologia così prodotta non ha come fine la conoscenza, ma la costruzione di un’identità, l’espressione di una strategia politica: il processo di globalizzazione cammina insieme alle rivendicazioni politiche che vogliono riaffermare culture e tradizioni etniche.
Le categorie del senso comune sono attualmente veicolate dalla stampa che prende a prestito le modalità di linguaggio politiche, artistiche, sociali e scientifiche, portando a espressioni inesatte (non ci sono mondi come tali, ma sono in stretta relazione tra di loro) ma intuitivamente giuste (rimanda i riflessi cangianti dei mondi costruiti nello specchio di un’umanità compresente a se stessa). Non esiste più alcuna isola culturale, tutti gli spazi investiti e simbolizzati dall’uomo si analizzano in un contesto globalizzato. Quasi tutti i popoli della terra vedono le proprie condizioni di vita determinate da decisioni prese in luoghi lontani da loro e subiscono un dominio economico, politico e culturale esercitato da poteri e forze esterne; vivono concretamente le conseguenze di fenomeni demografici, biomedici, ecologici, economici e politici che a loro sfuggono ma che li avvicinano ad altri gruppi anch’essi vittime.
Il mondo contemporaneo
La contemporaneità è definita dal fatto di vivere nella stessa epoca e di condividere riferimenti comuni, anche se viaggiando tra le diverse culture si ha la sensazione di viaggiare anche nel tempo. Ma la cosa più importante è che bisogna scegliere con accortezza oggetto di ricerca e metodologia da adottare sul campo, senza però ridurre l’indagine alle relazioni interpersonali in situ, poiché queste trovano, al di là del punto di vista interno, un secondo livello di spiegazione nello studio delle determinazioni esterne (di ordine geografico, demografico, economico, storico, politico, istituzionale…). La base è la descrizione minuziosa dei comportamenti umani nel loro contesto storico e culturale e il confronto con altre forme nel tempo e nello spazio, prospettando, attraverso il confronto tra modelli, norme, schemi culturali e orizzonti di pensiero, una condizione umana in costante ridefinizione.
L’antropologia dei mondi contemporanei riconosce la pluralità delle culture e i loro riferimenti comuni e le differenze interne alla singola cultura, non più pensato come un sapere condiviso al cento per cento, a come una pluralità di forme, nella quale il bagaglio culturale dei suoi membri varia a seconda della posizione sociale. Il concetto di acculturazione indica l’insieme dei fenomeni prodotti dallo scontro tra due culture differenti, ma presuppone che all’inizio esistano due insiemi puri e omogenei; problema non risolto dal concetto di ibridazione: i termini troppo generali o troppo globali sono scarsamente utili. L’adozione di una prospettiva sistemica non impedisce di tenere conto della variabilità e del cambiamento e del punto di vista degli attori: di queste prospettive diverse ha bisogno l’antropologia.
L’antropologo costruisce il proprio oggetto di studio, sceglie un tema legato a forme di vita collettive, va sul campo per effettuare l’indagine, deve leggere la letteratura dedicata a quell’oggetto di ricerca (deve sapere come sono stati definiti storicamente i concetti e le problematiche che utilizza), intraprende la scrittura dei risultati: sono queste le 4 fasi del suo lavoro.
Dall’etnografia di emergenza all’antropologia generale
Nel periodo classico, l’antropologia si occupava dello studio di piccole società esotiche, tenendo conto del loro contesto immediato; portava il segno dell’etnografia di emergenza o di salvataggio, che aveva come scopo prioritario la descrizione di società sul punto di scomparire davanti all’espansione della civiltà europea: oggi il contesto si estende al pianeta intero, ormai le genti sono locali solo in funzione di una specifica configurazione storica. La descrizione etnografica, combinata ad altri metodi, appare una tappa necessaria per qualsiasi studio serio dei fenomeni nuovi che risultano dalle complesse relazioni tra contesti di dominio e minoranze o movimenti politico-culturali. L’antropologia passa progressivamente dallo studio dei popoli a quello dei temi.
La diversificazione degli ambiti di studio
La diversità degli argomenti porta a una specializzazione crescete, che porta a una proliferazione di attributi, che nascono spesso per comodità istituzionale, ma sono sancite dall’uso. Questi ambiti sono oggetti empirici differenti e non sottodiscipline, che rischierebbero di condannare l’analisi a una forma di chirurgia selvaggia, mentre sono tutti interdipendenti. Per questo anziché dire antropologia dell’infanzia, dell’educazione, della guerra, dell’arte ecc, si preferisce dire antropologia giuridica, religiosa, medica, urbana: questo permette di conservare l’idea di una prospettiva antropologica unitaria, conservando l’umanità nel suo insieme come proprio campo visivo. Anche se è importante specializzarsi, bisogna conservare la visione generale e contrastare la ghettizzazione dei saperi.
L’antropologo mira a raggiungere una verità di cui sono portatrici le persone che interroga, trasformandosi in un indigeno per capire i progressi e i limiti.
C’è l’abitudine di formare termini composti con il prefisso "etno", che fanno pensare che il campo, l’atteggiamento e l’attività debbano tenere conto dei fattori culturali. Si parla di etnoscienze, intese o come rami dell’etnologia, o come saperi di altri popoli in un campo particolare o come studio comparativo di un campo in funzione dei gruppi culturali, il termine etnostoria indica un ramo della storia che si occupa delle società senza scrittura, dove non è applicabile la storiografia classica; l’etnobotanica si dedica sia allo studio delle piante usate dai popoli sia alla teoria indigena delle piante; l’etnomedicina è lo studio delle altre medicina e lo studio delle teorie degli altri riguardo alla medicina (cosa che vale sia per la storia, psichiatria, musicologia…). Sarebbe meglio però parlare di prospettiva di ricerca che non di campo disciplinare. Le etnoscienze assumono un’ulteriore accezione con cui si indica l’analisi delle classificazioni e dei processi attivati dalle diverse culture nei campo del sapere e delle sue applicazioni, abbracciando parzialmente l’insieme delle ricerche dell’antropologia cognitiva. Esso tenta di rispondere con il ricorso a metodi rigorosi alla questione di sapere come si costruisca, localmente, il mondo naturale. Caso a parte l’etnometodologia, tendenza della sociologia americana che applica i metodi dell’etnologia all’osservazione e all’analisi della vita quotidiana: qualsiasi gruppo sociale è in grado di comprendersi, commentarsi, analizzarsi, e gli etnometodi sono le procedure che i membri di una società usano per produrre il proprio mondo, riconoscerlo e renderlo familiare.
Studio delle società: la parentela
La parentela e le regole di alleanza matrimoniale sono al cuore dello studio delle società ristrette, dove solo questo studio permette di capire qualcosa dei rapporti sociali. Dovunque nel mondo le relazioni tra gli esseri umani restano in gran parte codificate dalle strutture di parentela (legami di filiazione, di germanità e di alleanza), codificazioni di natura storia, è evidentemente sociale e non biologica.
Il primo teorico della parentela fu l’americano Lewis Henry Morgan, che osservò, presso gli Irochesi, come utilizzassero lo stesso termine per indicare un parente e individui che non facevano parte dell’albero genealogico, e propose il concetto di parentela classificatoria: per organizzare la propria vita sociale, le diverse società hanno imposto un ordine al dato biologico, ed è per questo che bisogna studiare caso per caso la terminologia di parentela, le regole di discendenza, di matrimonio e di residenza. Alcuni pensano che non si possa separare la parentela da altre sfere della vita sociale, come ad esempio quella economica e giuridica.
Molto importante è la terminologia di parentela: comportano sia i principi di filiazione sia quelli di alleanza. Tutte le società sono principalmente endogamiche, ma con un principio esogamico, cioè evitare di sposarsi con parenti prossimi, senza però nessuna legge naturale: quindi interviene la cultura e sancire il limite. Tra i sistemi d scambio matrimoniale si distinguono quelli elementari (prescrivono o consigliano una forma precisa di matrimonio, ed è la nascita che indica la scelta del coniuge), quelli semicomplessi (il meccanismo delle proibizioni restringe la scelta dei possibili coniugi, precisando con quale gruppo sia possibile sposarsi) e quelli complessi (libertà di scelta, limitata solo da determinismi di natura sociale). Sono in genere sistemi complessi quelli che obbligano chi prende moglie a pagare un compenso matrimoniale.
Può sembrare che la filiazione abbia un fondamento biologico, ma è anch’essa codificata dalla cultura. Esiste un legame di filiazione tra due individui quando l’uno e l’altro discendono da una stessa persona, determinando così il gruppo al quale appartiene un individuo. È il principio che precisa la trasmissione della parentela, assegna a ciascuno uno status, definisce i gruppi sociali funzionali: indicano i gruppi sociali definiti dalla parentela che si innestano gli uni negli altri. Il lignaggio riunisce le persone che si considerano discendenti di un comune antenato e che possono ricostruire la propria genealogia partendo da quell’antenato: si parla di patrilignaggio e di filiazione patrilineare se la parentela è trasmessa dagli uomini, altrimenti matrilignaggio e filiazione matrilineare. I gruppi concreti sono strutturati secondo un riferimento di lignaggio, ma presentano anche membri di altri lignaggi, come sposi e spose, parlando quindi di gruppi di lignaggio, che possono dividersi in segmenti per limitazioni materiali o sociali, ma a volte continuano a intrattenere relazioni, altre volte rimane solo un vago sentimento di filiazione e ogni segmento diventa un lignaggio a sé.
Il clan è un gruppo i cui membri si considerano discendenti di un antenato comune leggendario o mitico, senza ricostruire una genealogia precisa. Ogni clan riunisce un certo numero di lignaggi apparentati, parlando di patriclan / clan paterno o di matriclan / clan materno. In certe società l’appartenere a un clan determina tutta la vita sociale, in altri casi possono avere meno impatto sulla vita quotidiana. Nei sistemi bilineari l’individuo è legato a certi gruppi in ragione della sua discendenza maschile e ad altri in ragione della sua discendenza femminile; in un regime di filiazione indifferenziata (o cognatica) si tiene conto di tutt’e due le discendenze: ognuno fa quindi parte di gruppi parentali che si sovrappongono, e diventa impossibile costituire gruppi permanenti, a meno di tenere conto solo di certi antenati
Studio delle società: economia, ambiente, ecologia
In società non così integrate nell’economia di mercato come in occidente, era impossibile applicare la scienza economica: in ogni luogo dove l’economia non era un settore autonomo, era difficile parlare di allocazione delle risorse, di profitto, di domanda e offerta, di compravendita… Dopo la scoperta di cerimonie spettacolari che davano luogo a distribuzione e distruzione massiccia di beni, svaniva l’idea del selvaggio che cercava solo di sopravvivere: dà luogo alla teoria dello scambio e del dono. Ci si era accorti che in certe società lo scambio non aveva sempre finalità economiche, e perciò non lo si poteva studiare se non tenendo conto del contesto: alcune avevano lo scopo di attestare pubblicamente lo status dei gruppi presenti, avevano l’effetto di neutralizzare il surplus sul piano economico, era una modalità di esercizio del potere.
Le analisi degli scambi cerimoniali lasciavano in ombra sfere meno prestigiose di produzione e scambio, ma ci si rese conto che nella maggior parte delle società che non sono governate in prevalenza dall’economia di mercato, non esiste alcun termine che designi l’economia come settore autonomo. Gli studi sulle relazioni tra gli uomini e il loro ambiente erano all’inizio di tipo determinista: le diverse società o culture dovevano le loro caratteristiche all’ambiente in cui si erano sviluppate; l’andamento culturale seguiva la stessa logica di quello biologico darwiniano. Ben presto però è venuto alla luce il fatto che le differenze di organizzazione sociale e le caratteristiche culturali non si potevano spiegare solo in base alle limitazioni date dall’ambiente, visto che molte società sullo stesso territorio avevano forti differenze, mentre società su territori diversi avevano forti analogie. Negli anni ’50 tornò in voga il vecchio pensiero, sotto il nome di "ecologia culturale" e poi di "materialismo culturale": tutti i tratti culturali (dalla tecnologia ai riti, passando per l’habitat e i sistemi di parentela) corrispondono a scelte razionali in funzione delle esigenze locali di adattamento. Pur avendo constatato che non sempre era così, alcuni studiosi utilizzarono il termine "ecosistema" per indicare l’insieme delle relazioni di scambio materiale in un ambiente dato: questo modello ha il merito di riconoscere che, se l’ambiente incide sulla vita collettiva degli esseri umani, anch’essi incidono sull’ambiente, ma mette in secondo piano il concetto di cultura, non più studiato per sé ma in relazione a come vengono portati a termine gli scambi. Secondo altri ricercatori favorevoli all’etnologia si dovrebbe mettere l’accento sul bisogno di comprendere le motivazioni che spingono gli attori a prendere certe decisioni.
Da queste discussioni emerge il fatto che le configurazioni locali sono molto più complesse di quanto non si pensasse. Molto interessante è l’analisi dei diversi tipi di mediazione che i gruppi umani operano con il non-umano: porta alla nascita delle etnoscienze, che studia i procedimenti scientifici così come sono appresi dalle diverse culture. Nelle sue espressioni più avanzate l’antropologia cognitiva si avvicina alla psicologia: tenta di avvicinare i propri criteri di scientificità a quelli delle scienze sperimentali, ma si scontra con le difficoltà della raccolta di informazioni sul campo, che non è mai pura, ma dipende dalle ipotesi e dai fulcri di interesse del ricercatore; procede in senso contrario rispetto al metodo strutturalista, con le sue classificazioni, ragionamenti, meccanismi mnemonici, rappresentazioni attinenti a tutte le branche del sapere. Il metodo strutturalista invece parte da un corpus diversificato di produzioni sociali per ridurli ad alcune strutture fondamentali che definiscono gli spazi mentali del pensiero; il metodo cognitivo parte dai meccanismi mentali attivati dall’individuo per pensare e agire in modo idoneo in quanto membro di una società, metodo che è vicino alle ricerche di psicologia sperimentale, di linguistica, logica e neurologia: si assiste a un riavvicinamento delle scienze naturali alle scienze sociali, dal momento che la cultura fa parte della natura.
L’antropologia del politico
Si presenta come un mezzo per prendere le misure d’insieme del campo dell’antropologia: occupa perciò un posto a parte, in quanto la variabilità delle forme di organizzazione politica è servita da criterio tipologico per identificare le formazioni sociali. Parte dal tentativo di spiegare la genesi dello Stato: la nascita di un potere centrale autonomo non risulta mai provocata da una causa unica e universale, ma può essere associata alla conquista, allo sfruttamento economico di una classe sociale su un’altra, all’esistenza di un surplus, al controllo degli armamenti, alla necessità di organizzare la produzione. In molte società non è possibile configurare il livello politico senza passare attraverso lo studio del fatto religioso: alcune società possono essere governate senza che una classe dirigente eserciti, attraverso un governo centrale, una vera e propria sovranità su un’unità territoriale ben definita, poiché politico non può essere ridotto a potere. Il potere può esprimersi attraverso una serie di prestazioni reciproche tra il capo e i membri del gruppo.
In certe società studiate può esistere uno stretto intreccio tra Stato e parentela, possono rivestire una funzione importante anche gli scambi matrimoniali, allargando la rete di alleanze. Le società sprovviste di istituzioni centralizzate e dove le relazioni tra gruppi di lignaggio non sono regolate da una specifica autorità sono definite società segmentarie, dove l’importanza delle unità politiche in gioco dipende dalla fusione o dalla contrapposizione dei segmenti di lignaggio in rapporto tra di loro; in altre società i gruppi di parentela sono controbilanciati da classi di età, da gruppi gerarchizzati di individui che attraversano insieme i riti di iniziazione socio-religiosi. D’altronde, i dispositivi del potere passano spesso attraverso i riti e le rappresentazioni cosmologiche. L’istituzione reale presenta spesso una dimensione sacra: il re si trova alla congiunzione del mondo divino con quello sociale e la sua funzione è indispensabile per la perpetuazione dei ritmi cosmici e per la celebrazione delle grandi cerimonie annuali, con un potere tanto più legittimo quanto più appare inserito nell’ordine naturale e deve la propria efficacia all’ignoranza dei meccanismi che lo fondano. L’ordine che ne deriva può essere più o meno esplicito e non comporta l’emissione di norme giuridiche, se no quando la loro violazione dà luogo a una sanzione inflitta da una o più persone qualificate a farlo.
Per questo il problema della genesi dello Stato ha lasciato il posto allo studio della diversità dei modi di esercizio del potere, dei meccanismi di dominio, delle forme di funzionamento dello Stato. L’antropologia del politico si interessa anche delle diverse modalità che danno luogo alla territorialità, delle stratificazioni sociali, dello status e dei ruoli, dell’esercizio legittimo della forza, del conflitto, delle relazioni tra legge, diritto di appropriazione e politica, dove non basta studiare le regole, ma bisogna tenere conto delle pratiche che ci sono quando le si osserva in situazioni specifiche. Per questo si fa una distinzione tra potere e autorità, che implica una certa legittimità rispetto al potere.
A partire dagli anni ’70, sull’onda dei filosofi post-strutturalisti, si discute delle relazioni di potere: il potere di certi capi locali, sotto il colonialismo, poteva essere cresciuto o diminuito, ma in ogni caso era cambiato.
La violenza è uno dei temi più rilevanti: il corpo diventa uno strumento al servizio di una causa (come per i terroristi), lo sciopero della fame, l’attentato suicida… La radicalizzazione delle posizioni in campi opposti determina il coinvolgimento fisico, il passaggio all’atto e l’esplosione di violenza, da cui trae linfa anche la propaganda politica, fino a sfociare in un programma di sterminio. La guerra si presenta come un termine troppo inglobante, con diverse forme: guerra istituzionalizzata, convenzionale, iniziatica, economica, civile o militare, consuetudinaria, modo di produzione; ogni guerra, comunque, vede contrapposte unità politiche localizzate. Prima ci si basava su teorie rigidamente etniche, poi ci si è concentrati sul carattere storico del diritto coloniale, dei gruppi etnici e del carattere dinamico del politico: l’etnia non può essere paragonata a una specie naturale che sopravvive o si estingue, ma va analizzata come un fenomeno storico, come un processo, dove sono importanti anche il conflitto e la contraddizione.
Ora ci si sta concentrando su clientelismo, ereditarietà delle funzioni, legami tra poteri locali e Stato. Il multiculturalismo è un fenomeno complesso, nel quale è necessario distinguere tra l’affermazione di differenze irriducibili e il principio di una società più aperta: l’immigrazione porta a una specie di etnicizzazione dei diversi gruppi migranti, che si spiega come un indebolimento della forza di attrazione che spinge all’assimilazione e all’integrazione. La politica è anche l’arte di amministrare e produrre soggetti, cittadini.
L’antropologia del politico trova in certi casi difficoltà a conservare un atteggiamento descrittivo o esplicativo libero da qualsiasi dimensione normativa, con l’invito a entrare come consulenti al servizio di istituzioni in continua ricomposizione.
L’antropologia della religione
Si inserisce in una tradizione materialista, svincolata da interpretazioni teologiche, segnata per molto tempo dalle religioni del Libro: per gli occidentali è difficile staccarsi dall’idea di una religione monoteista, legata a un testo, esclusiva, cui si accede grazie a una conversione. Ovunque l’uomo ha cercato di raggiungere le verità nascoste che stanno al di là della percezione normale, formulando ipotesi sulle energie che reggono il mondo e cercando di rendere visibile l’invisibile, utilizzando concetti come energia, forza, volontà, anima, slancio vitale, soffio vitale, estranei ai pensatori occidentali, non avendo il monopolio della metafisica, intesa sia come ricerca delle cause nascoste al di là della percezione immediata sia come speculazione sistematica.
I concetti di fede e di credenza sono tanto più difficili da gestire quanto più la religione sembra coestensiva alla cultura nel suo insieme. Una buona parte della religione è costituita da pratiche meccaniche e da tecniche, da protocolli per cerimonie, sacrifici e preghiere: fino agli anni ’60, le rappresentazioni e le pratiche religiose servivano sia alla coesione sociale e alla struttura del potere sia a rispecchiare una visione del mondo naturale e sociale. Una credenza religiosa (secondo Durkheim) è sempre vera quando svolge una funzione sociale, i riti esprimono e rafforzano la solidarietà di gruppo, di modo che il culto è in realtà dedicato al gruppo stesso. La divisione tra sacro e profano, però, dal momento che la società non è omogenea, solleva discussioni, dal momento che non si trova un punto d’accordo per la definizione di sacro.
Oggi la religione viene messa in relazione al processo di legittimazione dell’autorità, alle espressioni di risentimento dei dominati, agli interessi di classe e alle strategie dei singoli, il rito si presenta come un prolungamento della lotta politica, o come vettori di informazione o come espressioni di una visione del mondo.
Tutti i popoli classificano in varie categorie le specie, gli elementi, le sostanze della natura e i fenomeni climatici: secondo Sapir e Whorf, esiste una relazione necessaria tra le categorie e la struttura del linguaggio e il modo in cui gli esseri umani apprendono il mondo.
Se per un verso il rito non si confina nella sfera religiosa, non esiste religione senza rito, a cominciare dai riti di passaggio, che passano attraverso fasi precise scandendo il ciclo dell’esistenza degli individui e strutturando la società, passano attraverso iscrizioni irreversibili sul corpo, e si considera spesso il funerale come l’ultima fase del rito di passaggio. In ogni caso è necessario dare un senso di finitezza del corpo individuale, mentre il corpo sociale sopravvive, con una forte influenza di Freud su questo tema, nella scuola americana della cultura e personalità per esempio. L’interesse di queste ricerche consiste nello sforzo di articolare il livello individuale e quello collettivo, superando l’idea di una causalità a livello del singolo: se pure la religione spesso risponde ai bisogni dell’individuo, non è per soddisfare questi bisogni che i membri di una data società sono religiosi; a ciò si aggiunge la scoperta che in molte culture l’individuo è considerato una riunione effimera di elementi diversi, che in parte esistevano prima della sua nascita e in parte sopravvivranno alla sua morte, che ha messo in crisi la strutturazione delle istanze della personalità così come proponeva Freud. I dispositivi rituali funzionano come mediazioni necessarie all’azione di uomini su altri uomini, che operano dietro ai rapporti degli esseri umani con la natura e con gli dei; i destinatari proclamati dei riti possono essere dei, geni o antenati, ma non sono altro che mediatori di una relazione tra umani, con una relazione simbolica, attingendo dai campi religioso, sociale, psicologico e estetico.
Difficoltà anche con il lessico: i termini si dimostrano troppo rigidi quando contribuiscono a cristallizzare gli oggetti che cercano di definire; altri sono troppo polisemici, imponendo di volta in volta la messa a punto, come con "riti" e "rituali", per non parlare del termine "religione" come se fosse una dottrina ben definita, separandola da magia e stregoneria, con i quali è invece strettamente collegata. Le critiche sono state sferrate dallo strutturalismo, che ha richiamato l’attenzione sul lavoro di costruzione simbolica e sulle categorie della comprensione, e dall’ermeneutica, che ha tentato di esprimere la realtà sociale dall’interno, rendendo più problematico il processo di scrittura e l’inchiesta sul campo. L’antropologia cognitiva invece cerca di sottrarre lo studio della religione alle speculazioni e agli a priori concettuali, concentrandosi sui principi che spiegano la genesi delle credenze, utilizzando solo informazioni elaborate con metodi controllati.
Altro problema è l’autonomizzazione del campo religioso, poiché è inserito nel campo delle modalità di pensiero: il concetto di sovrannaturale non è universale, ma si è imposto nella civiltà occidentale insieme a quello di scienze naturali. Si contrappone il campo della natura, osservabile scientificamente, a quello dell’immaginario, dei miti e delle superstizioni, alla parte irrazionale.
L’antropologia della performance
Alla fine degli anni ’70 si passa da una scienza dei fatti, delle norme, delle strutture, a una scienza dei processi: le etnie non sono più entità chiuse e compiute, ma produzioni storiche in divenire. In tutte le maniere di usare il corpo umano dominano i fatti dell’educazione; il concetto di habitus mira a rendere conto dell’acquisito, che si incarna nei corpi e nelle menti sotto forma di disposizioni durevoli, che si possono osservare nelle posture, nei gesti, nelle mimiche, nell’espressione dei sentimenti. Gran parte della vita sociale e dei processi cognitivi non passa dal linguaggio ed è difficile esprimerla verbalmente: per questo si ricorre alla fotografia e alle registrazioni audiovisive, che mettono in luce aspetti importanti che non sono costitutivi sul piano del linguaggio.
La società è permeata di teatralità: ed è per questo che nasce il campo interdisciplinare chiamato performance studies, campo che comprende teatro, musica, danza, riti, preghiere, sacrifici, tradizioni orali, carnevali. L’evento è destinato a produrre effetti sul pubblico, che ne è spesso partecipe; la comunicazione con un altro mondo passa soprattutto da messe in scena suggestive che avvicinano il rito all’arte, con una loro dimensione estetica: qualsiasi religione ha bisogno di bellezza, regia, spettacolo, poiché nel rito sono in gioco aspetti profondi della coscienza umana, il rapporto con l’universo, il ciclo della vita e della morte, il mistero della procreazione… La traduzione di performance con spettacolo gli fa perdere la dimensione performativa, secondo la quale l’oggetto e la sua creazione si confondono, producendosi simultaneamente: anche gli spettacoli rituali sono performances, vanno al di là di se stessi, si mettono in gioco, fanno parte delle pratiche con cui una cultura si crea e si trasforma.
Cinema etnografico e antropologia visuale
Dopo l’invenzione del cinema, è stato subito messo al servizio dell’uomo e dell’osservazione dei suoi comportamenti, ma oggi il documentario vive all’ombra del grande cinema. In ogni caso, l’invenzione progressiva di apparecchiature sempre più leggere ha reso più facile il lavoro dell’etnologo, che può filmare le situazioni sociali che osserva.
La definizione di cinema etnografico è un po’fuorviante perché raccoglie al suo interno film di esploratori, viaggiatori, registi indipendenti, reporter televisivi: il paradigma esotico è il denominatore comune; sono comunque il più delle volte deludenti, alla continua ricerca di un positivismo e con la diffidenza verso gli artifici del cinema professionale. I filmati erano proposti come se rappresentassero fedelmente una realtà univoca, come se si potesse restituire il reale in modo perfettamente mimetico, indipendentemente dallo sguardo che si poggia su di esso: furono cineasti come Flaherty e Vigo, con uno sguardo più artistico e sociale che scientifico, con una conoscenza dell’arte di proporre un punto di vista, a cambiare il panorama. Erano consapevoli del fatto che gli avvenimenti di natura storica, cioè non inventati dal regista e dagli attori, devono comunque essere raccontati e che il narratore fa parte del racconto. Si parla però sempre di film etnologico e non di film antropologico poiché, in quanto scienza che parla dell’uomo, ogni film è antropologico, come ogni film è sociologico.
L’antropologia visuale riunisce una triplice attività:
- inchiesta etnografica fondata sull’impiego di tecniche di registrazione audiovisiva;
- uso di queste tecniche come modalità di scrittura e di pubblicazione;
- studio dell’immagine in senso lato (arti grafiche, fotografie, film, video) quale oggetto di ricerca.
Per quanto riguarda la produzione di immagini come oggetti di studio, non si può più partire dal principio secondo il quale i membri di una società pensano e agiscono esclusivamente in funzione di riferimenti culturali etnici semplici e omogenei. L’individuo raccoglie nel corso della propria vita modelli e riferimenti complessi, venuti da orizzonti diversi, dai più locali e dai più radicati nel tempo a quelli più volatili.
Se decide di girare un film, l’antropologo deve dotarsi dei mezzi necessari, poiché il contenuto non può essere disgiunto dalla forma e il mestiere comporta una dimensione artistica. Gli effetti di conoscenza non sono veicolati solo dai contenuti, ma anche dai suoni, dalle immagini, dalle tecniche, dallo stile: deve curare la propria sintassi, ricerca l’espressione adeguata, lavorare sul ritmo, la narrazione, l’emozione. Realizzare un documentario è un’arte discorsiva che comporta centinaia di scelte, come selezionare nella realtà i particolari significativi e mixare il sonoro, con una propria retorica, individuando personaggi e situazioni interessanti. Il film e il video sono mezzi incomparabili per mostrare luoghi, spazi, testimonianze, prese di posizione, atteggiamenti, posture, frammenti di vita. Nonostante tutto ciò, rimane una realtà trattata con una prospettiva particolare (si concentra sul trattamento di un oggetto che è possibile apprendere in mille modi), ben lontana dall’opera di invenzione (la creazione riguarda l’intero oggetto filmico).
Negli ultimi anni abbiamo un’inversione di rotta: sono le stesse persone oggetto di film etnografici che producono le proprie immagini e documentano la propria vita sociale. Così facendo, possono controllare la propria immagine e inviare alla comunità internazionale i messaggi che desiderano.
L’antropologia applicata
Oggi si interviene sempre più come consulenti sui problemi della società, perché chi ha il potere decisionale ha bisogno di una scienza a breve per poter adeguare le proprie scelte nell’immediato. La teorizzazione dello sviluppo è passata attraverso fasi in cui prevalevano preoccupazioni economiche, poi politiche, poi antropologiche, poi di nuovo economiche. A qualsiasi livello sia, nonostante i fallimenti, l’ideologia tecnocratica è potentissima: la razionalità è uno dei grandi miti dell’occidente, ma in materia di sviluppo economico sono tanti quelli che parlano di ragione, sapere, scienza, senza dare alcuna dimostrazione. La resistenza del reale sembra dimostrare che esistono troppi parametri in equilibrio instabile per poter proporre una prospettiva credibile, equilibri instabili accelerati anche dall’esigenza di progressi con efficacia a breve termine.
Etnografie e antropologia delle scienze
La storia e la filosofia sono discipline che esistono da molto tempo, al contrario di etnologia e antropologia che esistono da una ventina di anni, soprattutto sulla produzione scientifica e sulle sue applicazioni tecnologiche. È un campo di ricerca diversificato, fondamentale per la comprensione del nostro mondo in continuo sviluppo: studio della costruzione dell’autorità scientifica, critica delle modalità di esposizione retoriche della scienza, trasformazioni indotte dalle scoperte scientifiche, per citarne alcuni.
Dentro e fuori l’antropologia
È una disciplina di crocevia, ma gli scambi con le altre discipline sono reciproci: l’interesse di molti sociologi per l’antropologia e l’etnologia e per l’osservazione sul campo nasce negli anni ’50 dagli studiosi della scuola di Chicago, seguiti dall’università di San Diego. Non si uniscono, rimangono ben differenti: lo studio dettagliato delle configurazioni locali non si oppone alle logiche strutturali su scala più grande. Tra tutte le scienze umane, è la storia quella che si è ispirata di più ai metodi antropologici, tenendo conto dei fattori culturali. Questo interesse ha portato alla comparsa di nuovi oggetti di studio: teoria della persona, storia del corpo e delle pratiche corporali, della famiglia, del gusto… Lo studio dei sistemi di pensiero esotici ha gettato nuova luce sull’influenza esercitata dall’ideologia cristiana e sull’arte che ne deriva, sugli ideali, sul gestuale, sugli atteggiamenti. La periodizzazione si impone chiaramente come un tema comune all’antropologia e alla storia, come i concetti di mentalità, cultura, ideologia e immaginario.
È nata una nuova "nuova storiografia", che si fonda sull’analisi delle esperienze individuali, si interessa alla costruzione sociale dei ruoli sessuali, studia i problemi metodologici posti dalla biografia, con una prospettiva qualitativa molto vicina a quella antropologica. Non è possibile fare astrazione dalla storia. Il principio d’integrazione di una qualsiasi unità sociale non procede mai senza contraddizioni e tutte le pratiche sociali, tutti i modelli di comportamento, sono colti all’interno di un movimento continuo di trasformazione; sii hanno nuovi oggetti di studio (migrazioni, profughi, cosmopolitismo…), di chiara natura storica, legate alle scienze politiche. Si osserva anche, nella storiografia come nell’antropologia, un maggiore interesse per l’immagine nei suoi rapporti con il linguaggio. Non c’è dubbio, tra l’altro, che lo scritto abbia favorito l’esercizio del pensiero analitico e il controllo di vaste popolazioni attraverso una struttura amministrativa: l’avvento di sistemi d’istruzione basati sulla scrittura al posto delle immagini e del suono, ha trasformato le leggi della trasmissione culturale, con una rivincita però dell’oralità e del rito.
Sul campo: oggetto di ricerca in ambito antropologico
Il metodo su cui si basa l’antropologia è l’etnografia: è il lavoro sul campo dove il ricercatore partecipa alla vita quotidiana di una cultura differente, osserva, registra, tenta di accedere al punto di vista indigeno e scrive. I fondatori di questo metodo sono Boas (1886, tra gli indiani della costa occidentale degli USA) e Malinowski (1914, tra gli abitanti delle isole Trobriand, Nuova Guinea), aprendo una fase nuova della disciplina basata su monografie, descrizioni minuziose e il più complete possibili, con il loro recarsi di persona a condurre inchieste sul campo anziché speculare sui resoconti di esploratori, viaggiatori, militari e missionari. Hanno contribuito anche a creare l’immagine romantica dell’etnografo impegnato nella descrizione di strani costumi in posti lontani.
La parola campo indica insieme un luogo e un oggetto di ricerca, ed è un termine fondamentale in ambito antropologico. L’efficacia dell’inchiesta sta più nell’apprendimento spontaneo che nella ricerca consapevole e attiva: immergendosi in una cultura diversa dalla nostra, essa informa e forma molto più di quanto si sia consapevoli, grazie al cosiddetto sapere per familiarizzazione o per impregnazione, un sapere che affiora appena alla coscienza, ma che si traduce nella sensazione di conoscere lo scenario nel quale avvengono gli avvenimenti. L’esperienza permette di farci dire che cosa succederà e di non ignorare le regole implicite di una cultura, di non essere totalmente alla mercé della diversità dei fenomeni, ma di riuscire a distinguere l’informazione dai rumori circostanziali. La prova del campo impedisce di abbandonarsi a creazioni arbitrarie, di proiettare su una realtà sociale ciò che si desidera vedervi, di privilegiare i propri interessi soggettivi o quelli degli interlocutori, lottando tra due tendenze opposte: la prima è quella che lascia libero corso alla potenza organizzatrice delle proprie abitudini, banalizzando le impressioni che arrivano dall’esterno; la seconda è quella che spinge a definire la propria missione come una raccolta di differenza, che porterebbe a collocare qualsiasi informazione esterna al suo gruppo di origine sotto in segno di una intrinseca estraneità. In tutti i casi, dev’essere consapevole del fatto che raccogliere un’informazione non significa solo sintetizzare dati sensibili, ma anche modificarli, perché si crea una rappresentazione che prima non esisteva come tale; bisogna distinguere la regola come ipotesi teorica del ricercatore dalla regola come ipotesi teorica dei suoi interlocutori, considerando che la regola che governa realmente i comportamenti può essere distinta dalla prima e dalla seconda. Il lavoro di raccolta dati deve essere subordinato alla costruzione teorica del proprio oggetto di ricerca: la realtà non è data, ma costruita dal ricercatore; la nostra stessa percezione crea per difetto (seleziona le impressioni che corrispondono alle nostre idee) e per eccesso (può esagerare certi tratti). Per questo un ricercatore ben preparato si sforzerà di rimettere in discussione le proprie classificazioni, i propri montaggi della realtà, per essere certo di non creare egli stesso l’oggetto che vuole studiare. Questo esercizio di decostruzione ha faticato a imporsi contro gli a priori empiristi e positivisti: si deve lottare contro i propri automatismi per avere una base solida nelle descrizioni, moltiplicando i punti di vista senza pretendere di abbracciare la totalità dell’oggetto.
Sul campo, l’antropologo si vede proposti in continuazione temi e interessi che non coincidono con le categorie della propria cultura; l’informatore, inoltre, fornisce informazioni che sono inserite dall’antropologo in un insieme che egli ignora: se chi sa non dice tutto quello che sa, il sapere che cede gli è in un qualche modo rubato, fatto imputabile però anche a quello che viene imputato di conoscere l’ uno all’altro. Per questo l’antropologo deve mettersi in ascolto, creare uno spazio anche per gli interrogativi e i dubbi dell’informatore, considerandolo anche un interlocutore.
Se va condannato l’uso esclusivo del questionario, è esagerato però affermare che non serva a niente, perché questi sforzi pedagogici comunque portano a qualcosa, grazie alla capacità di spiegarsi. Per questo, all’inizio di un’inchiesta sarebbe meglio un lungo soggiorno sul campo per conoscere ad osmosi costumi, lingua e usanze, non trascurando gli aspetti non verbali dell’assimilazione dei codici sociali, e stringendo amicizia con gli individui del gruppo: è una condizione simile a quella di uno studente. Deve riflettere su se stesso: una dimensione critica, principio fondamentale dell’analisi transculturale. Negli anni ’70 si è assistito a un proliferare di opere consacrate all’inchiesta sul campo, mettendo in luce il carattere unico di un’esperienza dove l’osservatore è il proprio strumento di ricerca. Il ricercatore, nel corso del proprio soggiorno sul campo, è costretto a immergersi al di fuori della proiezione data dal conformismo verso un ordine particolare del mondo, assistendo a diversi tentativi compiuti dagli uomini per vivere il mondo e dargli un senso, partecipandovi e offrendone testimonianza. L’esperienza del campo provoca un disagio doppio ma salutare: quello materiale (dove capisce che non è scontata nessuna definizione a priori di una vita normale) e quello che lo costringe a lacerare la trama delle abitudini e di idee belle che gli sono servite da protezione. Si sente personalmente trasformato dall’esperienza.
Lo studio del contesto storico nella pratica antropologica ha messo in evidenza la dimensione politica del ruolo dell’antropologo in quanto erede del colonialismo. Lo stereotipo dell’antropologo come maestro è dovuto in gran parte alla scarsità di testi di riflessione che attestino l’impotenza dell’etnografo. Inoltre, quando si confronta con la differenza culturale, fa luce sui fondamenti delle concezioni specifiche della propria cultura. Oltre ai doni e alle retribuzioni, capita spesso che l’etnologo sia recuperato e utilizzato nelle strategie locali, venendogli così difficile rimanere neutrale: certi territori invitano e costringono l’antropologo a impegnarsi moralmente, socialmente, politicamente.
La concezione del campo come spazio di sperimentazione, come laboratorio o come riserva, è oggi contestata dai teorici della globalizzazione e della mobilità delle culture, con movimenti più rapidi di popolazione, con un lavoro sul campo con una forma reticolare per seguire il movimento: si studiano i campi profughi, le comunità virtuali, non andando quindi per forza in una terra incognita.
L'antropologo e la lettura
Antropologia e filosofia non possono fare a meno di confrontarsi e di utilizzarsi a vicenda: coloro che appartengono a una data società si capiscono e capiscono il proprio universo sociale, poiché attivano uno specifico sapere fondato su disposizioni acquisite, schemi di pensiero, esperienze, informazioni, che applicano alla propria situazione personale. I metodi impegnati quindi si collocano lungo la linea di convergenza dell’individuale e del collettivo: si deve tentare di comprendere tali metodi osservando comportamenti e analizzando discorsi, mettendo a confronto le proprie osservazioni con un sapere accumulato nella letteratura. Gli serve per gestire una certa tensione tra il dialogo che intrattiene sul campo con i suoi interlocutori e quello più astratto che mantiene con i suoi autori: dovrà evitare volta per volta di soffocare le esperienze sul campo con quello che già sa e di stimolare la curiosità grazie alla propria cultura antropologica. Questo differenzia il campo dal reportage.
Bisogna però evitare il neofunzionalismo, che tende a spiegare tutto come sintomo di un’epoca, poiché si rischia di incagliarsi in un determinismo integrale. Ogni ricercatore è collocato nella propria cultura, ma tenta di affrancarsene, impegnandosi in un dialogo con autori di altre epoche, discipline e luoghi. Ciò che si osserva da un punto di vista specifico non si spiega interamente con le condizioni storiche che rendono possibile tale prospettiva: certe verità resistono alla contestualizzazione radicale. I grandi pensatori indossano gli abiti della propria epoca, ma il loro pensiero è di ogni tempo, ma bisogna leggere prospettando una doppia lettura: prima quella del contesto culturale dell’epoca, e poi quella delle conoscenze acquisite da allora. Per un antropologo la lettura svolge una funzione fondamentale nell’apprendimento di una cultura professionale fatta di un insieme di conoscenze, di disposizioni etiche, di valori, di principi pratici.
L'antropologo e la scrittura
L’antropologo è un autore e deve interrogarsi sul linguaggio che impiega e sulla propria scrittura. Se c’è scienza, si basa su una costruzione teorica che a sua volta si fonda su dati, sempre mediati dal linguaggio: la lingua comune veicola tradizioni di pensiero che ne condizionano lo sguardo, la concezione del mondo e la raffigurazione della realtà. Sono stati creati molti neologismi per dare a certi termini un significato più tecnico che permettesse di essere meno vaghi. Prima del 1980, la scrittura tendeva all’imparzialità, alla neutralità, all’impersonalità, perché c’era ancora la logica di rottura con il soggettivismo. Ogni stile postula una teoria (concezione generale di ciò che si discute), una tradizione intellettuale (la letteratura) e un impegno etico (non giudicare ma capire). Oggi gli antropologi si sforzano di esporre i percorsi attraverso i quali sono stati indotti a pensare quello che pensano e tentano di rendere esplicito l’andirivieni tra teoria e campo. Non è più librarsi sull’esperienza degli attori, ma rendere le caratteristiche di situazione e di dialogo dell’etnografia. I testi lasciano più spazio a voci diverse da quelle del ricercatore: voci che escono dagli archivi, dagli interlocutori sul campo, dai filosofi, dai teorici della letteratura, dai narratori; c’è più attenzione alle interazioni sociali, all’antropologia della parola e degli altri fatti della comunicazione, anche perché l’enunciato è sempre relativo a un contesto soggetto a variabili e a incognite. Si cerca di diversificare le fonti, di evitare i portavoce d’ufficiali, di raccogliere il punto di vista femminile, di non ignorare i deboli e i dominati: le società semplici o ristrette non sono unanimi.
La forma del testo prende l’andamento di chi procede a tastoni tipico della ricerca, con la riflessività (esercizio critico del ricercatore su di sé, lo sforzo di oggettivazione della propria soggettività) come esigenza della ricerca. La monografia è il genere per eccellenza dell’antropologia classica (1920 – 1975); dopo, va più di moda il saggio, in quanto punto di vista argomentato su un tema. Piano piano, emergeranno nuove scritture che lasceranno più spazio al dialogo tra autore e soggetti e tra autore e lettori: diventerà una scienza multidisciplinare, aggiungendo alla propria prospettiva quella di altre scienze umane e della letteratura, entrandone in dialogo. Oltre alla scrittura, altre tecniche, come cinema e video, offrono la possibilità di rendere atmosfere e ambienti, di dare parola, di interagire, di seguire lo svolgimento di un’azione, senza però considerarle come un mezzo trasparente che restituisce i fatti senza mediazione.
Superare le false alternative
Le scienze umane sono soggette a un perpetuo riesame delle loro ipotesi, dei loro concetti e metodi, della loro scrittura: le contrapposizioni troppo semplici sono un freno notevole all’elaborazione di ipotesi. La sociologia e l’antropologia si sono costruite contro le intuizioni soggettive, adottando un metodo olistico e ricercano le relazioni che stanno alla base del sistema. Da una ventina di anni, l’olismo ha ceduto il passo a un individualismo metodologico, che parte dall’attore singolo per cercare di capire perché agisca in un certo modo. In quest’ottica, società e istituzione sono il risultato delle interazioni sociali, le norme sono l’esito e non la causa delle interazioni. Una delle difficoltà è capire se esiste una struttura prescrittiva preliminare che fissa le norme di comportamento, o se invece la struttura è prodotta dal gioco delle pratiche: l’individuo è prodotto dalla società, ma solo gli individui possono produrre la società. Non si può quindi contrapporre individuo e società, dal momento che l’individuo non può pensarsi solo e il collettivo si incarna inevitabilmente in lui. Si valorizza più il dubbio della certezza, il particolare più del generale. I critici constatano il carattere caotico del mondo e l’implosione delle grandi narrazioni, senza per questo pensare che tutto è finzione. Nella fiction, l’autore manifesta la propria intenzione di inventare in modo consapevole e deliberato, offrendo l’ingegnosità di una storia inventata, che può anche ispirarsi alla realtà, ma il referente è chiaramente immaginario, gli avvenimenti non si sono mai storicamente prodotti. I grandi evoluzionisti consideravano le società umane come altrettante tappe sul cammino di un progresso lineare, quasi che l’umanità intera avesse come fine la nascita della società occidentale, assolutamente sbagliato, ma non è opera di finzione; come sbagliavano i diffusionisti, quando non si curavano dell’affidabilità delle fonti; o i funzionalisti, visto che le società non funzionano come una macchina; o gli strutturalisti, che postulavano una relazione fissa tra significante e significato.
L’analisi antropologica è forzatamente strutturale e comparativa, con una portata più generale rispetto allo specifico rilievo dei casi singoli: sono sempre certi a priori ontologici che contrappongono rappresentazioni e pratiche, senso e funzione. I sistemi simbolici sono efficaci solo nella misure in cui significano e insieme funzionano: per agire sul mondo, bisogna dargli un senso, analizzando al contempo l’attivazione delle logiche sociali e della loro struttura. Non si può però prescindere dal fatto che l’antropologia ha come fine ultimo la spiegazione della variabilità dei fatti umani, comprendente per forza anche quello delle somiglianze e degli universali: senza generalizzazione e confronto, non avrebbe grande interesse.
Ogni argomentazione è soggetta a un dibattito tra specialisti, fondato su una lettura molto attenta dei testi e sul confronto, permettendo la valutazione dell’opera. Si possono considerare i materiali di una ricerca più come artefatti prodotti dal ricercatore che come dati, ma qualcosa della realtà esterna comunque resiste alle specificità dell’inchiesta. Il fatto che non sia possibile accedere alla realtà se non attraverso il prisma di una particolare cultura, non fa sparire né la realtà né la portata universale delle scoperte. Olismo e individualismo non si contrappongono come il vero e il falso, sono scelte metodologiche che hanno vantaggi e svantaggi, come pure procedimento induttivo e deduttivo, che vengono usati continuamente entrambi. Le popolazioni del mondo intero sono governate da meccanismi globali che sfuggono al loro controllo e la cui istanza strutturante è in ogni caso il capitalismo mondiale. Tutto il mondo è preso nelle reti, nei mercati, mentre la maggior parte di noi si ritiene priva di presa su un sistema mondiale in rapida trasformazione: per questo delle persone si raggruppano, adattando la propria cultura alle sfide del momento e sfruttando creativamente il proprio passato. È con questo che l’antropologo deve fare i conti: non esiste cultura senza politica e senza rappresentazione, l’identità deve tanto al globale quanto al locale, alla sopravvivenza come al passato, allo Stato come alle radici.
Tre tappe sull’antropologia
L’antropologia è il frutto di uno sviluppo scientifico complesso che si è verificato in Occidente in tre tappe principali:
1. Filosofia greca e romana, che hanno dato le basi;
2. Età dei lumi e al suo sviluppo scientifico e filosofico;
3. Rivoluzione industriale.
La scrittura e la stampa, in quanto tecnica, introducono una trasformazione di grande portata che modifica a fondo gli atti della comunicazione.